Come tutti gli abitanti di Genova conoscevo bene il ponte Morandi. Lo vedevo ogni mattina prendere forma mentre attraversavo il torrente Polcevera diretto a scuola. Hom vissuto a Genova gli anni della mia gioventù, prima di trasferirmi a Moena: erano gli anni Sessanta, quelli dell’onda lunga del boom economico.
Genova era una città già ostaggio del cemento. Si edificava ovunque: in collina, sui torrenti, in riva al mare perché la tecnologia costruttiva, in cui noi italiani eravamo maestri, permetteva di superare ogni barriera. La prova incontrovertibile era il ponte Morandi lungo 1.102 metri che sorvolava la Val Polcevera a una sessantina di metri dal suolo.
Il ferro unito al cemento poteva vincere ogni barriera. Ma quel gigante grigio incuteva anche paura a chi passava sopra e abitava sotto. Attraversarlo in auto dava una sensazione strana. L’attenzione non andava al paesaggio, il mare da un lato e le colline dall’altro. Istintivamente si premeva sull’acceleratore per approdare prima al versante opposto. Spesso invece si procedeva a passo d’uomo perché tutto il traffico del complesso nodo di Genova passava dal ponte.
Ricordo i momenti di panico quando, al rientro con la famiglia da una vacanza in Corsica, fui tamponato da un camion. I danni si limitarono alla sola carrozzeria ma compilare i moduli assicurativi sospeso tra cielo e terra e nel mezzo di un flusso rumoroso di auto fu una esperienza da non ripetere.
Molto più travagliata la vita di chi abitava sotto il ponte. Inizialmente lo shock di trovarsi al centro di un enorme cantiere che costruiva travature di cemento contro il cielo. Poi l’angoscia di trovarsi ai piedi di campate alte 90 metri che affondavano i ciclopici artigli a pochi metri dalle finestre delle abitazioni. Il rumore continuo del traffico, la caduta di calcinacci e i disagi di un cantiere ricorrente, visti i segni di precoce invecchiamento delle campate.
Dopo il crollo del 14 agosto per molti, la necessità di lasciare la propria casa perché è impossibile demolire un ponte in presenza di abitazioni.
Genova dovrà affrontare giornate difficili. Oltre ai rischi idro geologici sempre in agguato, al traffico (ora ancora più caotico) c’è il pericolo che la sua economia portuale subisca contraccolpi. L’aver confidato troppo sul quell’unico ponte, rinviando nel tempo soluzioni alternative, oggi pesa come le sue rovine.
“Il crollo del viadotto sul torrente Polcevera ha provocato uno squarcio nel cuore di Genova”, ha detto nell’omelia il vescovo Angelo Bagnasco davanti alle bare. “La ferita è profonda. È fatta innanzitutto dallo sconfinato dolore per coloro che hanno perso la vita e per i dispersi, per i loro familiari, i feriti, i molti sfollati. Genova però non si arrende: l’anima del suo popolo in questi giorni è attraversata da mille pensieri e sentimenti, ma continuerà a lottare. Come altre volte, noi genovesi sapremo trarre dal nostro cuore il meglio”.
L’augurio che Genova “la superba”, “la bella” abbia ora la forza di rialzarsi.
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