Impensierisce il rivitalizzarsi dell’islam più radicale e intollerante
Un gigante, il Pakistan. Più di 200 milioni di abitanti. Il secondo paese musulmano d’Asia, dopo l’Indonesia. Ma di ben altro spessore politico e importanza strategica nello scacchiere internazionale. Oltre che potenza nucleare di tutto rispetto. Pure se le tensioni con l’India per la questione del Kashmir sembrano in larga parte sfumate o perlomeno non così impellenti, il Pakistan resta un punto nevralgico nel gioco delle alleanze e nel controllo dell’area asiatica, nella zona di transito tra medio ed estremo oriente.
Quelle di fine luglio saranno elezioni di importanza fondamentale. Per vari motivi: di tattica interna nel confronto tra i fondamentalismi – se ne contano di diversa “caratura” ed aggressività – e un aspetto laico dello stato di diritto e, al contempo, di strategia internazionale, posto com’è, il Pakistan, tra Afghanistan (dove il conflitto interno non pare assopirsi e anzi prendono sempre più terreno – e potere – i talebani) e l’area mediorientale, dove le tensioni permangono e insistono a partire da quel focolaio permanente da anni che è la Siria, ma non solo.
Il clima, alla vigilia della tornata elettorale non sembra dei più tranquilli. Attentati con bombe nascoste nei banchetti dei mercati; attacchi suicidi con camion lanciati a tutta velocità tra la folla; uccisioni selettive di diversi candidati dei partiti più eterogenei. Un attentato suicida a Peshawar nel corso di un comizio elettorale ha provocato 20 morti – ucciso anche Haroon Bilour, un dirigente dell’Awami National Party (Anp), partito in prima fila nell’opposizione ai talebani – e oltre 60 feriti; la strage è stata rivendicata dai guerriglieri talebani. Lo scopo è quello di seminare il terrore e mettere paura tra la gente. Creare il caos e moltiplicare il panico in una società già percorsa da mille tensioni di carattere etnico e religioso (i cristiani sono gravemente discriminati e gli spazi finora loro garantiti sembrano in grave pregiudizio) e solcata da enormi diseguaglianze sociali ed economiche, giova solo ai radicalismi più estremi che mirano a distruggere e per nulla a costruire.
Il ricordo che riaffiora alla nostra memoria, del Pakistan, è un pullulare di gente, un andirivieni tumultuoso nelle strade di Karachi e Rawalpindi, tra i miasmi dei gas di scarico dei motorini di ogni sorta e il via vai di gente che a tutte le ore solcano quelle vie caotiche e frequentano quelle piazze intasate, con una temperatura di 50° fin dalle prime ore del mattino. Quasi una metafora della diatriba tra partiti (davvero tanti anche stavolta) e i candidati che sono innumerevoli nei diversi schieramenti.
Il personaggio favorito è Imran Khan, ex capitano della squadra di cricket, uno sport molto popolare in Pakistan, paragonabile al gioco del calcio da noi. Molto ricco a tal punto da essere anche filantropo: non disdegna di finanziare le scuole coraniche come la “famosa” madrasa di Haqqania, quella in qui si era formato il “famoso” mullah Omar, quello che nell’Afghanistan di vent’anni fa era riuscito a sfuggire alle forze speciali americane scappando in motoretta. Al di là degli aspetti di folklore, quello che impensierisce è un rivitalizzarsi dell’islam più radicale e intollerante che prende di mira l’occidente in quanto portatore di valori di laicità e di rispetto dei diritti; visione del mondo incompatibile con una interpretazione integralista del verbo coranico.
Rimane che il vero detentore del potere in Pakistan – lo è sempre stato fin dai tempi di Bhutto padre, Alì, e della figlia Benazir, assassinata al suo rientro in patria da un complotto – è l’Esercito e lo sono i Servizi di sicurezza. Non a caso si tratta di una potenza militare di prim’ordine e al ministero della Difesa vengono stornati ingenti somme del bilancio dello Stato. E resta pure che quello pakistano è un popolo di sudditi e non di cittadini, vilipeso nei diritti fondamentali di ogni persona in quanto tale; la disoccupazione, specie giovanile, è altissima, e basta aver frequentato anche per breve tempo un mercato rionale di Karachi o di Islamabad per rendersi conto che i ragazzi non hanno nessuna prospettiva se non arruolarsi nelle Forze armate; ci riescono i più forti e i più asserviti, le ragazze essendo relegate ad un ruolo servile, rinchiuse e non riconosciute. Benazir Bhutto aveva tentato, invano, una qualche riforma di parità di genere, subito boicottata dall’establishment musulmano di allora, per nulla mutato, se non in peggio, oggigiorno.
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