Non possiamo certo chiamare politica quello che Salvini sta facendo. Ed è difficile immaginare chi e come possa arginare il festival dei populismi
Forse bisognerebbe avere il coraggio di dirlo: siamo ormai un paese senza politica. Almeno se intendiamo “politica” in un senso pieno, come capacità di governare il confronto fra la vita associata (la polis) e le contingenze storiche in cui ti tocca vivere e che ti si presentano davanti giorno dopo giorno.
Non possiamo certo chiamare politica quello che Salvini sta facendo, perché è semplicemente l’annuncio che fermerà il mondo, senza avere né gli strumenti né la capacità per farlo. Prima ancora di discutere se le ricette che propone siano eticamente accettabili o meno, il problema è che non hanno i fondamenti per imporsi: siamo un paese fragile, con gravi problemi economici (basta guardare l’andamento delle borse), con una struttura burocratica traballante e con gravi problemi di tenuta sociale. La politica di Salvini somiglia a quelli che quando sono al buio e non sanno dove andare né sono in grado di capire se ci sono rischi, urlano per farsi coraggio.
La sua spalla Di Maio è più o meno nelle stesse condizioni. Punta al consenso di quel po’ di sottocultura del sinistrismo superficiale che ancora gira per l’Italia mescolando obiettivi moralisteggianti (la lotta al gioco d’azzardo) con lo slogan della lotta al precariato sul lavoro: obiettivi anche condivisibili, ma di nuovo non risolvibili con qualche legge. Per il resto Salvini va forte e gli lasciano fare il capo del governo: l’intervista del presidente Conte alla “Stampa” (10 luglio) è rivelatrice di un personaggio non all’altezza del suo ruolo.
Non che tutto il governo sia in queste condizioni. Il ministro dell’economia Giovanni Tria sta facendo bene il suo lavoro pur nelle condizioni difficili in cui è incapsulato e infatti nella coalizione i mugugni contro di lui sono notevoli. Naturalmente non dice di essere contro gli obiettivi scritti nel famoso “contratto”, ma avverte che bisogna provare a realizzarli per gradi e in condizioni di sicurezza dei conti pubblici: il che viene interpretato dagli scalpitanti dioscuri come un modo di mettere i bastoni fra le ruote. C’è da chiedersi quanto potrà reggere al ministero dell’economia un docente che non voglia perdere la sua credibilità di tecnico.
Questo del resto non è un problema solo di Tria. Non sembra aver destato il dovuto interesse una audizione in commissione parlamentare del ministro Paolo Savona. Questi era stato presentato come una specie di guastatore con nessuna considerazione verso le condizioni oggettive del nostro paese. Ebbene, se leggete le sue parole davanti ai parlamentari, vedrete un uomo molto realista che non pensa affatto a scassare il sistema dell’euro, ma anzi pone temi su cui val la pena di meditare quanto ai poteri che si dovrebbero dare alla BCE per tutelarlo. E quanto alla situazione italiana avverte che non è improprio immaginare non che noi usciamo dall’euro, quanto che gli altri ci costringano a farlo, circostanza per la quale andrebbero predisposte strategie di limitazione dei danni. Del resto anche Savona ha una sua reputazione da difendere e viene da una carriera niente affatto banale. Che poi ogni tanto abbia fatto il Pierino per il gusto di vedere l’effetto che fa, magari frequentando qualche cattiva compagnia, non toglie che abbia solide competenze che, presumiamo, gli impediranno di sottoscrivere decisioni avventate.
Tuttavia nella situazione attuale è difficile immaginare chi e come possa arginare il festival dei populismi a cui dobbiamo assistere, anche con scenari internazionali non proprio raccomandabili. L’opposizione non sembra in grado di superare il complesso di guardarsi l’ombelico, cioè di rimpiangere il proprio passato, lontano o recente che sia. Così sul centrodestra moderato l’unica proposta sembra il ritorno sulla scena di Silvio Berlusconi, mentre nel centrosinistra tiene banco quella di Matteo Renzi. E non è certo il funambolismo verbale di D’Alema che propone analisi banali con l’aria di insegnare verità somme a ridare presenza ad una vecchia classe dirigente che si rimprovera, per facciata, di non avere promosso una nuova classe dirigente adeguata, ma che non ha più né il tempo né i mezzi per riparare.
Il problema è che questa mancanza di politica non è un problema solo “romano” come si sarebbe detto una volta. Drammaticamente coinvolge il tessuto del paese e non sembra che a livello periferico si intraveda quella riscossa che in altri tempi ha imposto un salto di qualità alla politica nazionale.
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