Nella terra abitata da temuti ma fotografatissimi orsi e lupi e da aquile dallo sguardo acuto (come quella di San Venceslao, icona istituzionale e premio per autoctoni meritevoli), fa ora irruzione un cammello. Trattasi del quadrupede protagonista, suo malgrado, della breve storia, nota al popolo dei social, da cui prende spunto la Lettera del vescovo Lauro, “Il dodicesimo cammello”, distribuita ai fedeli accorsi numerosi al pontificale di San Vigilio e ora allegata a questo numero del settimanale. La storia ha origine in terra araba. Un cammelliere è disposto a rinunciare alla propria unica cavalcatura, pur di mettere d’accordo tre fratelli litigiosi, incapaci di dividersi l’eredità del padre. Il dono ha il merito di riportare un po’ di serenità nel gruppo familiare, pur non dovendo egli, il cammelliere di passaggio, rinunciare in realtà al proprio animale. Messaggio intuitivo: a volte vince anche la semplicità del bene. Non solo la banalità del male. Perché un dono gratuito, fine a se stesso, senza calcoli preventivi, acquista il potere di far stare tutti i personaggi un po’ meglio di prima, a cominciare dal donatore.
Il cammello irrompe anzitutto nel percorso di una Chiesa, quella trentina, che non esce certo da mesi facili: le ferite inferte dalla cronaca, la Curia oggetto di un profondo e non indolore ripensamento, la chiusura della radio diocesana, la recente presentazione di un bilancio in sofferenza, la necessità di rivedere l’organizzazione territoriale, anche in relazione alla continua emorragia nel clero. Quest’anno non vi sono state ordinazioni sacerdotali e nemmeno la tradizionale girandola di parroci annunciata a inizio estate per compiersi poi in autunno, passaggio solitamente atteso anche dai media laici, desiderosi di raccontare pagine di vita comunitaria. Sembrano vacillare anche i campeggi stanziali di un tempo, superati in gradimento dai grest diurni, meno impegnativi e più “mordi e fuggi”.
Volti l’occhio e nulla è più come prima. E il “prima” è solo l’altro ieri, fagocitato nel mito del “tempo reale”. Tutto sembra condurre a una radicale revisione di prospettiva. Paura? Ci sta. Scoraggiamento? Meno. Perché significherebbe abdicare alla fiducia nell’azione dello Spirto Santo che continua, maestro di gratuità – ci ricorda don Lauro della lettera – a guidare la sua Chiesa. Piuttosto prendere atto che la Storia ci consegna un’altra pagina da riempire, fuori da schemi ormai usurati. Ma con quello spirito evangelico, tutto da riscoprire, che trova fondamento proprio nella logica del “dodicesimo cammello”: gratuità senza tanti calcoli, immediata, spontanea. Senza alcuna ambizione da primi della classe ma con la volontà di rimettersi in gioco, con limiti e fragilità ma mettendoci la faccia, giocandosi la credibilità.
La partita non è però solo confessionale. Ѐ una sfida trasversale, altamente umana, che tocca credenti e non.
Il cammello – dopo pecore e agnelli, probabilmente il primo animale finito al cospetto di Gesù Bambino – per gli esperti di marketing potrebbe essere un “brand”. Un simbolo che identifica uno stile di vita: umile, tutta sostanza e poca apparenza, resistenza più che abbrivio. Abituato a dare il meglio negli aridi silenzi del deserto, più che nelle sfolgoranti autostrade digitali. Difficile dire se il nostro amico dalla doppia gobba – pure un po’ goffo nel camminare – possa avere un minimo di appeal nell’immaginario collettivo, dove sembrano andare di moda ben altri “cavalli” vincenti. Tollerabilmente altezzosi, perché sicuri di sé. Impetuosi. Promettenti.
A proposito, se non fosse che si rischia di generalizzare, a parlare del cammello – estetica a parte – sembra quasi sentir descrivere i trentini. Passo lento ma duraturo. Poche pretese e tenacia nel perseguire un obiettivo. Ritrosia alle semplificazioni e voglia di capire. I trentini doc, ma non gli accidiosi ingenerosamente “toncati”. E, allora, sia consentita un po’ di campagna elettorale, con tanto di hashtag: #primailcammello.
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