E’ nei piccoli contesti che il lavoro ritrova un senso e una prospettiva
Non si può generalizzare, il mondo impoverito è vasto e variegato, ma si può senz’altro affermare che lavoro e tecnologie sono fattori del tutto vilipesi – in quei contesti, a quelle latitudini -, ma laddove vengono appropriatamente impiegati fungono da volano di vera crescita e di autentico sviluppo di piccole comunità o di intere etnie e popoli. Rimane sullo sfondo l’ammonimento –sempre attuale – di Albert Einstein, il quale richiamava il fatto che i progressi tecnici moltiplicano passi da gigante e fanno “progredire” il genere umano, mentre l’evoluzione delle persone – delle società e delle nazioni – va spesso a rilento, subisce scossoni e fasi di stallo, un andamento ondivago soggetto a continui stop-and-go che limitano la portata complessiva di un elevamento complessivo della qualità di vita valida per tutti.
Non vi è ombra di dubbio, ad esempio, che nel cosiddetto Sud del mondo (i continenti impoveriti, per intenderci, facendo le dovute distinzioni: ci sono aree dell’India che possono concorrere bene con la Silicon Valley californiana) il lavoro è una chimera, dilaga una deflagrante disoccupazione di massa, e le condizioni stesse di vita sono al limite della sopportazione. I flussi migratori, del resto, non a caso “fotografano” situazioni di crisi estreme dovute a guerre e persecuzioni, instabilità politica e mancanza di diritti, ma il comun denominatore appare quello di una mancanza di reddito e di risparmio, premessa indispensabile per qualsiasi progetto futuro di società aggregata.
Muhammad Yunus, l’economista del Bangladesh ideatore e realizzatore del sistema del microcredito, nel suo ultimo libro appena uscito (Un mondo a tre zeri, Feltrinelli), ribadisce che una fuoriuscita dalla crisi evidente ed eclatante del capitalismo mondiale può avvenire solo con la redistribuzione della ricchezza e lottando contro le diseguaglianze abissali che stanno aumentando, ma al contempo facendo sì che tutti gli esseri umani possano in qualche modo diventare imprenditori di sé stessi, artefici del proprio destino. Una chimera, oggi, in un mondo che restringe le libertà e i diritti. Vorrebbe significare rivalutare i talenti, di cui ciascuno può disporre, e la creatività, insita in ciascuno, che sono invece negati dai rapporti di produzione dominanti.
Amartya Sen, altro economista di scuola “terzomondista” asserisce che ogni persona –e su vasta scala ogni popolo- può avere dentro sé le risorse necessarie e le chances –concrete possibilità- atte a prospettare per sé e per i propri cari una vita migliore. Ci sono invero tanti piccoli contesti locali –nei subcontinenti, nei centri urbani delle megalopoli come nelle estreme, dimenticate periferie- che mostrano come la creatività umana in contesti comunitari possa fare miracoli per l’elevazione di sé e per il riscatto degli altri.
E’ in piccoli contesti che il lavoro ritrova un senso e una prospettiva –fonte incredibile e formidabile di autostima e “successo” personale- ed è significativo che alcune culture non abbiano sviluppato il concetto stesso di “accumulazione” ma riescano a vivere l’economia come soddisfazione dei bisogni comunitari prima ancora che individuali. Pure piccole “scoperte” povere di tipo tecnologico posso apportare significativi miglioramenti nella vita di una comunità. Dotarsi di un telefono satellitare permette di comunicare; l’installazione di un sistema radio allarga la possibilità per molti di accedere a servizi primari di cultura e di assistenza sanitaria; dotarsi di un fuoristrada abbrevia i tempi e le fatiche di chi visita comunità finis terrae. C’è qualche giovane donna trentina –conosciamo il loro impegno e ci attrae il loro entusiasmo frutto di un progetto di vita per gli altri- che ha deciso da tempo di dedicare tempo e speranze a sperdute minuscole comunità indie disperse sulla cordigliera andina che testimonia come la tecnologia faccia miracoli se rapportata ad un contesto pienamente aperto ai rapporti umani. Alla fine è sempre il capitale umano-le singole irripetibili persone- che risulta decisivo. L’uso che si fa della “tecnicalità”, se perverso e nocivo come l’apertura di continue vastissime discariche in ampie zone d’Africa, o vincente e positivo come le scoperte digitali che mettono in contatto contesti umani altrimenti separati e solitari e possono innestare virtuose joint venture per un miglioramento complessivo di tutti.
Come è palese, lapalissiano, che tutto dipende dall’uso che se ne fa. Così vale anche per la vita di ciascuno, le priorità che si aprono, cosa fare, nelle scelte di ogni giorno, di quel mare vasto, aperto delle possibilità.
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