Per breve tempo possano servire anche gli analgesici: ma da soli non bastano…
Prima delle elezioni, veniva spontaneo parlare dei nodi del sistema-Paese elencandone le cause: bassa produttività, poca ricerca e innovazione, inefficienza dei sistemi finanziario e giudiziario, evasione fiscale, enorme debito pubblico, carenze nei servizi pubblici, ossessioni burocratiche. E altro. Gli effetti di questo micidiale cocktail sulla crescita, sul lavoro, sul fisco e sugli equilibri sociali erano così ovvi, da sembrare quasi superfluo citarli.
La campagna elettorale e il verdetto dei cittadini hanno in un certo senso spostato l’attenzione dalle cause agli effetti: le preoccupazioni per la produttività (aumentata in Italia negli ultimi vent’anni in media dello 0,3 per cento, contro una media europea dell’1,3 per cento) soccombono di fronte al mega-ammortizzatore del reddito di cittadinanza; le buone intenzioni sulla spesa pubblica per ridurre la pressione fiscale sono oscurate dalla suadente alternativa di un’imposta ad aliquota fissa («flat», piatta); e per il disagio sociale un bell’anticipo dell’età pensionabile, nonostante i moniti in senso contrario degli organismi internazionali, è un’idea a presa rapida.
In questo spostamento di focus non ci sarebbe nulla di scandaloso, visto il malessere che opprime ampi strati della società, purché non si perdano di vista due condizioni fondamentali. La prima è resistere alla tentazione di curare i sintomi senza estirpare il male. Sappiamo tutti che in un Paese con una disoccupazione giovanile del 32 per cento (contro il 18 per cento nell’Eurozona) il lavoro va creato, non surrogato da elargizioni benefiche, né da esodi prematuri; e che sono l’efficienza del comparto pubblico, la lotta all’evasione e l’equità contributiva i presupposti per un fisco meno esoso. Occorre cioè eliminare le cause distorsive, come nel mal di denti, che si cura con il trapano del dentista, benché per breve tempo possano servire anche gli analgesici: ma da soli non bastano. La carie va rimossa. E l’Italia ne ha molte.
La seconda condizione è stata lucidamente esposta nei giorni scorsi da Mario Monti, nella popolare trasmissione televisiva «Di martedì». Parlando di reddito di cittadinanza, flat tax e pensioni, l’ex premier ha sostenuto che ciascuna di queste misure può essere discussa – nessuna è in sé improponibile, visto anche il consenso dei cittadini – purché non se ne perda di vista la sostenibilità: tutto dipende dal come e dal quanto, e quasi certamente le condizioni della finanza pubblica italiana non consentirebbero di attuare tutte e tre le misure assieme. In altre parole, non bisogna mai perdere di vista la fatidica domanda, tanto cara al compianto ex ministro del tesoro Ugo La Malfa: «chi paga il conto?». Qualcuno risponde che un eventuale aumento del debito pubblico, contratto per finanziare misure di sostegno sociale, si ripagherebbe con gli introiti fiscali derivanti dai maggiori stimoli alla crescita: una specie di formula magica per cui il conto non lo pagherebbe nessuno. Altri replicano che questa fiducia incondizionata negli effetti moltiplicativi del deficit è un pericoloso azzardo.
Per la nuova classe politica la via è stretta: i nodi sono da sciogliere, ma gli azzardi da evitare, perché resta molto amaro in bocca quando gli incantesimi svaniscono.
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