Al Tiroler Landesmuseen (Museo Statale Tirolese) Ferdinandeum di Innsbruck fino al 20 gennaio 2019
La stagione illuministica ereditò la consapevolezza che la guerra fosse meglio evitarla sebbene, non potendo (apparentemente) farne a meno, si dovesse condurla con eserciti ben addestrati e assistiti sotto l’aspetto medico sanitario. Con l’entrata in guerra la Croce Rossa italiana militarizzò il suo personale forte di quasi 10 mila infermieri e oltre un migliaio di dottori, apparati logistici specializzati tra ospedali chirurgici mobili, postazioni di primo soccorso e farmacie campali. Almeno 3 mila ufficiali medici mobilitati nel 1915-1918, chiamati ad operare i soldati più gravi, visitare sommariamente e mandare nelle retrovie i meno urgenti o, debitamente scortati, rispedire in linea quelli ritenuti abili.
A parole non rende l’idea quanto il senso della vista dinanzi agli strumenti e alle attrezzature ospedaliere quali bisturi, sonde, pinze, protesi, ma pure farmaci, lettighe e camici chirurgici significativamente associati all’esposizione di un apparato fotografico di grande valore, quanto meno per non versare nel dimenticatoio certe nefandezze. Tanto più nel centenario della Grande Guerra, con il susseguirsi, in Trentino e non solo, di iniziative commemorative per cui il Tiroler Landesmuseen (Museo Statale Tirolese) Ferdinandeum di innsbruck ospita fino al 20 gennaio 2019 una mostra incentrata intorno alla macchina sanitaria messa in moto sul fronte italo-austriaco. Grazie a “L’amore per il prossimo in guerra, assistenza sanitaria militare fino al 1918” inaugurata ad Innsbruck il 23 febbraio scorso in sinergia con il Museo dei Kaiserjäger sono esposti una trentina di pannelli didascalici – in lingua italiana oltreché tedesca per rafforzare il legame con la città ospitante – di ciò che accadde in armi in questo nostro lembo montagnoso conteso un secolo addietro.
L’esposizione è frutto di una selezione di contributi fotografici che hanno visto curatori il direttore della ripartizione personale dell’Azienda sanitaria altoatesina Christian Kofler e il chirurgo odontoiatra trentino Renzo Mosna, entrambi assorbiti per mesi dalla ricerca documentale. Spiega Kofler: “In questa nostra mostra abbiamo voluto trattare il mestiere e la tecnologia medicale in maniera diretta e approfondita”.
Quella del chirurgo coadiuvato da personale infermieristico volontario che imparò ad amputare arti, estrarre denti, somministrare adrenalina ai dissanguati oppure a rimane impotente di fronte all’agonia dei morenti: vani tentativi, talvolta, vere e proprie follie e colpi di genio, talaltra.
Inutile dire che il sistema dei reparti di sanità, definito sulla carta, saltò puntualmente in più occasioni. I feriti, nei via vai in processione, mostravano aspetti spaventosi tra bende insanguinate e brandelli di carne. Giacevano spesso uno accanto all’altro e l’odore della morte era perennemente nelle narici del medico. Decessi sopravvenuti a causa di infezioni postoperatorie, incuria del personale sanitario e mancanza di medicamenti appropriati se non per conoscenze sommarie responsabili di interventi per ferite balistiche spesso peggiori dei mali per i quali i pazienti finirono sotto i ferri. E poi l’idea che gli invalidi di guerra fossero una “diversità” sociale da accettare nell’ottica di una sventura per definizione provvida.
Ma se il racconto della chirurgia primo novecentesca potrebbe apparire oggi un romanzo antico, ciò è dovuto ad una certa assuefazione all’inarrestabile progresso tecnologico. Ecco allora che da una mostra come questa inizia un viaggio a ritroso nei patimenti, nell’eroismo e nella gloria in mezzo a tanto sangue versato in nome della patria. Nel corso di una guerra, grande sì, ma solo per mole di immolati.
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