Gianfranco Mattera descrive in 15 racconti le difficoltà affrontate nel lavoro quotidiano: “Sono piccoli microcosmi di svariata umanità – dice l'autore – che troppo spesso non notiamo”
Un racconto a più voci o meglio più racconti ed un filo conduttore che ne fa quasi un romanzo. Brutte storie, bella gente (Edizioni San Paolo), il libro di Gianfranco Mattera, assistente sociale di professione, trentino d'adozione, è proprio questo: un incrocio di storie che dipingono la realtà, articolata e per niente semplice, dei servizi sociali.
Il filo conduttore è il protagonista del libro che, pagina dopo pagina, incontra una umanità varia: persone in difficoltà ma capaci di chiedere aiuto, disposte ad affrontare un percorso per ritrovarsi. Alle spalle brutte storie, ma appunto “bella gente”, capace di regalare tanto a chi ha il privilegio di incontrarla.
Il sottotitolo recita “Incontri ordinari di una professione straordinaria”. Resta tale anche nella quotidianità, con il peso e la fatica di un lavoro quotidiano?
Sì, assolutamente! E’ una professione che mi permette di incontrare tanta gente, persone nuove che portano nel mio lavoro qualcosa di speciale, quello che ognuno sta vivendo. Molto spesso si tratta ovviamente di situazioni problematiche. Ma non è mai scontato che qualcuno venga da te e si racconti, disponibile a mettersi in gioco. Perché non è esigere un aiuto, è chiedere aiuto, cercare qualcuno che ti accompagni per un pezzo della tua vita, un pezzo delicato.
Sono 15 storie scelte tra mille. Perché proprio queste?
Sono piccoli microcosmi di svariata umanità. Danno la possibilità di vedere più sfaccettature di quelle che sono le storie di persone che ci vivono accanto e delle quali spesso ci accorgiamo.
I capitoli sono nomi .Identificabili dunque davvero come persone, non storie astratte. E’ l’umanità che si racconta?
Certo, fare l’assistente sociale non è un lavoro bello nel senso estetico del termine. Non è bello in sé. È bello tutto ciò che ogni persona ti lascia. Ogni incontro, ogni dialogo.
Dalle sue pagine viene il richiamo deciso a rimettere al centro la persona…
Purtroppo siamo schiacciati dalla burocrazia e dalla procedura. Ma l’unicità di incontrare una persona – anche un bambino capace con le sue domande di aprirti ad un mondo sconosciuto – è una ricchezza. Un bambino ha una capacità di perdonare proprio la dove l’adulto chiuderebbe la porta. E quell’incontro è più un ricevere che un dare, ti riporta all’importanza della relazione. Il primo servizio che noi diamo è l’accoglienza e il secondo è l’ascolto. Senza ricordare che chi hai di fronte è una persona predisposta al cambiamento, che cerca una persona che possa indicare una strada diversa da quella che l'ha portato al baratro, allora diventa impossibile dare una mano. Puoi fare qualcosa, ma non tutto.
A chi consigliarne la lettura?
A chiunque. Assistenti sociali e no. Uno psicologo, un prete, un insegnante… sono tante le persone che possono trovarsi al posto giusto per ricevere un’altra persona. Può essere anche quel vicino a cui sempre più spesso non bussiamo perché non abbiamo il coraggio di chiedere aiuto.
Povertà, immigrazione, malattia psichiatrica: sono tanti i temi affrontati. Tutti ambiti in cui ha lavorato?
Sì. A me sta particolarmente a cuore il racconto di Celestino, malato psichiatrico che io considero un bambino. Vive una vicenda di solitudine e infila le lune nei pozzi. Noi dobbiamo sapere da dove arriva Celestino per capire perché questa operazione prettamente mentale di estraneazione dalla realtà lo sta salvando. Dobbiamo conoscere chi abbiamo di fronte.
Rispetto al Sud, dove lei ha lavorato, emergono differenze?
Assolutamente si. Qui i servizi ci sono, e funzionano. E c’è un rapporto numerico tra assistenti e residenti che permette di lavorare con un assistente sociale ogni 3250 abitanti. Invece in Campania, da dove provengo, uno ogni 35000 abitanti. Poi se è vero che qui ci sono i servizi, io mi porto dietro dal sud la relazione, che qui è un aspetto talvolta più carente.
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