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Nel secondo incontro promosso dalla Pastorale della Salute – l’aula magna era ancora una volta gremita all’oratorio del Duomo – un contributo molto qualificato è arrivato venerdì scorso dal gesuita Carlo Casalone, medico e teologo moralista, che è riuscito a offrire le coordinate di riferimento con cui valutare la legge. Ne ha anche sottolineato alcuni punti critici, chiedendosi come “far tesoro delle perplessità che il testo suscita per favorire prassi applicative che scongiurino le derive più pericolose”, come l'eutanasia e l'accanimento terapeutico.
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In continuità con l'incontro precedente, richiamato da Vanda Giuliani che ha moderato la serata, il relatore è partito dalla constatazione del tentativo di riequilibrare il rapporto medico – ammalata, insidiatoda una visione talvolta contrattualistica, da problemi nuovi imposti dall'organizzazione sanitaria, ma anche da una concezione errata dell'autodeterminazione da parte del malato. A proposito, se è vero che al centro della decisione clinica deve esserci sempre la persona ammalata, la sua autonomia (anche secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica) va considerata sempre “relazionale e concreta”, mai individualistica e astratta. Questo significa che una persona non va mai abbandonata alla sua decisione: non può essere autosufficiente perchè – come tutta la sua vita – anche questa fase è legata alla relazione con gli altri, i familiari per primi.
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Illustrando la visione antropologica cristiana, il gesuita ha insistito sul fatto che essa nasce da una riflessione sull'uomo alla luce della Rivelazione; non viene dedotta direttamente da contenuti rivelati, ma dalla stessa interpretazione della vita e del suo senso nella storia: a domande nuove si offrono risposte che nascono anche dall'esperienza di fede, che pone al centro il valore della dignità dell'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. A proposito, quindi, si afferma che la stessa vita terrena sia un bene fondamentale, ma non un valore assoluto. E' relativa; per i cristiani è un valore penultimo, non ultimo.
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L'eutanasia illecita
Soffermandosi sull'illiceità morale dell'eutanasia (a partire dal comandamento “non uccidere”), Casalone l'ha definita come “azione od omissione che per struttura propria e deliberata intenzione causa la morte di una persona su sua richiesta per eliminare la sofferenza. Lo stesso gesto può quindi assumere un significato etico differente, rispetto alle intenzioni con cui viene compiuto.
A proposito dell'accanimento terapeutico, pure illecito, che “mantiene le funzioni biologiche senza guardare al bene della persona”, è riferito all'utilizzo di terapie sproporzionate. Qui la valutazione riguarda l'appropriatezza clinica (dove l'interpretazione spetta in primo luogo al medico) sulla base del rapporto fra mezzi impiegati ed effetti sperati, ma anche sul giudizio della persona malata. Se ella – anche di fronte ad un intervento clinicamente appropriato – esprime un giudizio contrario, la sua valutazione etica va accolta con attenzione e rispetto. A proposito dunque esiste una chiara differenza tra uccidere e lasciar morire, anche se l'effetto è uguale. E' l'intenzione a qualificare l'atto morale. Per questo motivo non può esserci un “diritto all'eutanasia”.
Passando a individuare alcuni passaggi critici, Casalone ha definito (secondo il comma 6 dell'art.1 della legge) quella del malato rispetto al medico un'autonomia “temperata”: non va quindi assolutizzata, il medico non è mero esecutore della volontà del paziente ma deve tener conto anche delle altre indicazioni di legge, dei doveri deontologici e di quelle che la letteratura chiama “buone pratiche cliniche”.
Quando è lecito sospendere la terapia e lasciare che la morte accada? La risposta di Casalone: “Quando si tratta di sospendere quello che abbiamo sopra definito accanimento terapeutico, con l'utilizzo di mezzi spoporzionati”.
Questo, riconosce Casalone, non elimina certo ogni dubbio sul comportamento da tenere in ciascun singolo caso, cosa che sarebbe peraltro impossibile sulla base di una norma di legge. Una prima ragione è che non vi è sempre coincidenza tra appropriatezza clinica e proporzionalità delle cure. Lo ha sottolineato papa Francesco nel recente Messaggio alla WMA (2017): «per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale».
Trattamenti sanitari
Un aspetto controverso nella prassi ospedaliera è quello legato alla nutrizione e idratazione artificiale (in gergo NIA), che la legge include tra i trattamenti sanitari. Il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente che le rifiuti con una consapevole e informata decisione, anche anticipatamente espressa in previsione dell’eventuale perdita della capacità di scegliere ed esprimersi. La delicatezza della questione nasce da una parte dal grande valore simbolico di cibo e acqua per le relazioni umane, dall’altro dal fatto che la loro mancanza conduce a morte per fame e sete.
Va detto che l’art. 1, c. 5 precisa che per NIA si intende la «somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici»; pertanto l’analogia con il pane e l’acqua è piuttosto remota. Inoltre, nei casi in cui lo stato di coscienza è fortemente compromesso o assente – come nello stato vegetativo permanente (SVP) la percezione soggettiva della fame e della sete è piuttosto dubbia, anche per la complessità del quadro metabolico e il ruolo che vi può svolgere lo squilibrio elettrolitico. Sullo sfondo rimane la questione della revoca di un presidio di sostegno vitale.
A proposito Papa Francesco ha osservato che gli interventi tecnologici sul corpo «possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”.
Il valore delle DAT
Risposta al nodo della stesura delle DAT e al lavore valore, Casalone ha affermato che il rischio che le DAT si riducano a un atto formale riguardo a dispositivi tecnici è reale e andrà evitato sul piano applicativo, favorendo uno stile che consenta una corretta comprensione dell’informazione così come un confronto consapevole con il limite e con eventi che interpellano il senso profondo del vivere. Appare decisamente più chiaro e convincente quanto si dispone a proposito della pianificazione condivisa delle cure, che riguarda i casi di patologie croniche e invalidanti o in evoluzione verso una prognosi infausta.
Rispetto al fatto che il medico possa disattenderle, come afferma la legge, “in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale”, i sostenitori più spinti dell’autodeterminazione del paziente vedono qui un possibile escamotage per eluderne le volontà. Ma in realtà sarebbe meglio dire che il medico non disattende le DAT, quanto piuttosto svolge il proprio compito cercandone l’interpretazione più corretta nelle circostanze concrete. Infatti se esse sono incoerenti, sono impossibili da applicare; se non sono pertinenti al contesto clinico, sarebbe improprio attuarle.
Medici obiettori
Il relatore ha affrontato quindi un ulteriore rilievo mosso alla legge: non prevedere l’obiezione di coscienza. Inserirla, secondo Casalone, solleverebbe però difficoltà non trascurabili, in primis perché non è chiaro verso quale comportamento specifico si attuerebbe l’obiezione. Non siamo in una situazione simile a quella dell’aborto, in cui si può definire facilmente la fattispecie a cui ci si riferisce. Qui si tratterebbe di comportamenti non sempre e non univocamente determinabili, che anzi in alcune situazioni sarebbero professionalmente leciti, se non doverosi. Inoltre, i giuristi segnalano la difficoltà a configurare un’obiezione non a compiere un determinato atto, ma ad astenersi dal farlo o a sospendere un’azione precedentemente intrapresa: obiettare significherebbe in questo caso dare avvio ad azioni che potrebbero comportare una imposizione di trattamento sanitario, in violazione dell’art. 32 Cost.. Tenendo presenti queste considerazioni, l’unica obiezione di coscienza comprensibile sarebbe nei confronti dell’eutanasia. Ma questo richiederebbe di assumere che la legge introduca l’eutanasia nel nostro ordinamento, interpretazione che, secondo Casalone, appare decisamente forzata.
Cosa resta da fare
Durante il ricco dibattito, che ha portato ad affrontare anche singoli casi, il gesuita ha richiamato Papa Francsco quando afferma che «argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise
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in un clima di reciproco ascolto e accoglienza». Per questa strada sembra più raggiungibile l’intento di «tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società».Serve un lavoro attento nella fase di attuazione della legge, favorendone un’interpretazione che accentui il significato culturale della relazione di cura come prospettiva globale in cui inquadrare tutta la questione. A questo riguardo sarà dirimente la cura per la formazione del personale sanitario – non solo delle strutture legate alla Chiesa – e la promozione del ruolo dei Comitati etici indipendenti. Si apre anche uno spazio per percorsi di accompagnamento nell’elaborazione delle DAT, che ne evitino la deriva burocratica e permettano alle persone di appropriarsi della profondità della decisione in gioco. Un lavoro serio in questo ambito avrà un impatto pure sul clima culturale e sull’ethos condiviso.
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