"Il Signore ci offre pane e parole per sostenere il cammino della nostra vita e dona ai nostri malati se stesso, ossia la parola che risana e guarisce: preghiamo per loro e per chi si dedica alla loro cura perché possano sperimentare che Dio è il Signore della vita e della gioia".
L'arcivescovo Lauro si è rivolto così all'assemblea sabato scorso in Santa Maria Maggiore, all'inizio della celebrazione presieduta insieme a don Piero Rattin, don Olivo Rocchetti, don Andrea Decarli e un sacerdote pakistano della Diocesi di Karachi, in occasione della XXVI Giornata Mondiale del Malato, ispirata al tema "Ecco tuo figlio … Ecco tua madre. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé" (Gv 19, 26-27), .
"Il lebbroso vive l'esperienza angosciante dell'isolamento e della solitudine – ha esordito monsignor Tisi nell'omelia, traendo spunto dal racconto dell'incontro con Gesù -: con la sua richiesta, è l'icona dell'umanità e di ognuno di noi poiché ogni uomo e donna conosce il bisogno di essere guarito, di essere felice, di trovare risposta alla domanda di vita che porta nel cuore, domanda che a volte diventa grido di struggente sofferenza perché non trova esaudimento".
Ciò che caratterizza quest'uomo, colpito nel fisico, è tuttavia un atteggiamento di grande fiducia: "Il suo "se vuoi, puoi purificarmi" tocca Gesù, lo muove a compassione e lui a sua volta lo tocca, restituendogli la salute: il "lo voglio" di Gesù è rivolto anche a noi, adesso, e ci dice che chi ricorre a lui con fiducia e decisione, e con la speranza di incontrarlo, trova la certezza della sua presenza misericordiosa".
"Il Signore ci vuole felici, desidera che la nostra vita abbia senso – ha proseguito don Lauro -, e la condizione per assaporare questo suo desiderio è fare nostro il comportamento del lebbroso: questo è il punto dolente perché nel nostro agire quotidiano ci fidiamo di noi stessi e del nostro fare, di tutti tranne che di lui, e così anche la Chiesa, attraversata com'è dall'allergia alla preghiera e al silenzio. Crediamo di essere autosufficienti, lasciamoci provocare dai malati".
Come rispondere alla domanda di vita e di senso? "C'è vita quando siamo capaci di perdonare, di chiamare fratello e sorella l'altro: la guarigione dalla lebbra dei pregiudizi e dal considerare gli altri avversari arriva desiderando che l'altro cresca e si espanda, e perciò quando ci pieghiamo sulle ferite del fratello con tenerezza e compassione". L'Arcivescovo ha poi chiesto di pregare per i cristiani perseguitati nel Pakistan, affinché il loro ricordo diventi sprone a vivere con più decisione l'esperienza di fede e la celebrazione si è conclusa recitando la preghiera del malato.
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