Settant’anni fa l’assassinio di Gandhi. Per il Mahatma la disobbedienza civile di massa doveva essere un amplissimo coinvolgimento di tantissime persone che reagiscono all’ingiustizia
Avevamo quasi una venerazione per lui, per quest’uomo che aveva saputo dare uno scatto di dignità estrema all’India fino a condurla all’indipendenza dal potere coloniale britannico. Ci affascinava (a noi, sparuto gruppetto di obiettori di coscienza che nel fine inverno del 1978, quarant’anni fa, rifiutavamo il servizio militare per quel folle spendere così tanti soldi in armamenti micidiali di morte) quella sua teoria e pratica della nonviolenza attiva, il satyagraha, una resistenza al potere oppressivo con una disobbedienza civile e di massa. Che lui aveva praticato con risultati impensabili, vincenti, proponibili a tutt’oggi in diversi scenari di controversie.
Il Mahatma Gandhi, assassinato da un fanatico indù il 30 gennaio del 1948 – 70 anni fa – risulta una figura estremamente controversa: amato e odiato, ammirato in tutto il mondo per il suo insegnamento. Un insegnamento mai così ammirato, certamente, ma altrettanto certo disatteso e snobbato.
Se si può enucleare un pensiero fondamentale nella sua lunga vita e nella sua “carriera” politica (ma egli rifiutava ogni tentazione di carrierismo e casomai si riconosceva solo come un umile maestro nella risoluzione dei conflitti) possiamo dire che è la compassione che risulta la sua cartina di tornasole con cui affrontava i problemi dell’India. Com-patire, avere le stesse passioni per una causa comune, fare di un popolo disperso di individui una grande comunità di persone accomunate da un destino che è lo stesso per tutti. Questa era la sua direttiva e occorreva farlo – insisteva – con strumenti pacifici, ribaltando i termini della violenza del potere in una nonviolenza (un’unica parola a indicare positività) attiva (a volere un atteggiamento di intraprendenza, di reazione, di non rassegnazione).
Per Gandhi la disobbedienza civile di massa doveva essere un amplissimo coinvolgimento di tantissime persone che reagiscono all’ingiustizia che le colpisce in nome della giustizia e della dignità di tutti (come per le manifestazioni delle donne di questi giorni negli Stati Uniti). Certo, oggi l’India fa molta difficoltà a riconoscersi nell’insegnamento del Mahatma Gandhi coinvolta com’è in una spirale diffusa di integralismo politico e di intransigenza religiosa (in cui, ad esempio, i cristiani sono vittime sacrificali di un odio che non pare arrestarsi, così come nel vicino Pakistan dove sono quasi quotidiane la distruzione e l’assalto alle chiese e alle poche scuole cristiane). Che poi Gandhi abbia in parte difeso il sistema atavico delle caste; si sia lasciato andare a commenti razzisti in Sudafrica; abbia scritto ad Hitler e incontrato Mussolini; o fosse cocciuto in quella sua discussa pratica, la yagna, il fatto cioè di giacere con delle fanciulle per mettere a prova la sua castità…tutto questo non può mettere in nessun dubbio la sua statura di statista, uomo politico lungimirante, per nulla attaccato al potere come privilegio quanto sostenitore invece del potere inteso come cambiamento collettivo per il bene del suo popolo, la sua gente fra cui si mischiava con naturale afflato.
A settant’anni dalla sua morte cruenta, il Mahatma Gandhi rimane una persona da conoscere e studiare, il satyagraha una straordinaria pratica politica da riscoprire, alternativa certo alla corsa alle armi e all’ammazzarsi, all’odio e al terrore come risoluzione delle controversie tra le persone, nei piccoli contesti quotidiani, e tra i popoli nei macrocontesti internazionali. Ma chi si riconosce oggi nel suo insegnamento?
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