L’itinerario umano e spirituale di questo coraggioso sacerdote nei documenti e nelle carte raccolte da Nicola Sordo, nipote del fratello Ermete
Quando si trovava nel lager di via Resia a Bolzano – è l’autunno avanzato del 1944 – don Narciso Sordo, sacerdote originario di Castello Tesino, avrebbe di certo potuto salvarsi. La sua condizione di prete che non aveva compiuto nessun reato (era da sempre antifascista, ma dedito al mondo dell’educazione e dell’insegnamento, la formazione delle coscienze), ma soprattutto il fatto che sapeva perfettamente il tedesco gli avrebbero consentito una qualche scappatoia per sfuggire alla deportazione che di lì a qualche mese ne avrebbe consumato la vita – letteralmente consumata: la sua è stata infatti una morte per lenta, inesorabile consunzione, dovuta alle fatiche, agli stenti, alle percosse subite, al deteriorarsi delle condizioni fisiche, non certo quelle psicologiche che fino all’ultimo e per quanto possibile, come emerge dalle testimonianze, erano rimaste integre.
Il fratello Ermete, stimato professionista a Milano, nell’immediato dopoguerra (don Sordo è morto verso metà marzo, secondo alcune testimonianze il giorno 13 del 1945, quando ormai mancavano soltanto poche settimane alla fine della guerra) si era attivato fin da subito con grandi energie per avere il più possibile notizie sulla fine di don Narciso.
Il nipote del dottor Ermete Sordo, Nicola, attualmente assessore alla Cultura del Comune di Castello Tesino, sfoglia la documentazione che è riuscito a raccogliere sul suo prozio. Da tempo si preoccupa di mettere assieme documenti e carte che possano aiutare a ricostruire l’itinerario umano e spirituale di questo coraggioso sacerdote. Sono lettere, cartoline, fogli di appunti, frammenti da cui emerge chiaramente – in modo fin troppo limpido e lampante – la vocazione di quest’uomo che era nato il 15 gennaio 1899 e che quindi al momento della sua morte aveva da poco compiuto 46 anni. Una maturazione, quella di don Narciso Sordo, avvenuta chiaramente nell’ambito ecclesiale, ma con vedute ampie, “aperto” alle esigenze delle persone della società di quel tempo. Per nulla bigotto, il suo essere prete incarnava l’esigenza di un cristianesimo “maturo”, pienamente in sintonia con i bisogni e i travagli delle donne e degli uomini che incontrava. Educatore da sempre, impegnato nel mondo della scuola al Collegio Arcivescovile, ad Arco, Ala e a San Michele all’Adige, dalle numerose testimonianze di persone che lo hanno conosciuto e stimato e da quanto emerge anche dalla documentazione a disposizione, siamo davanti a una persona che crede profondamente nel valore della cultura e dell’educazione.
Nei mesi più terribili della guerra, nel 1944, quando Trento è bombardata e ripara nel paese natio, don Sordo si premura di mettere in piedi una piccola scuola per permettere alle ragazze e ai ragazzi del posto di continuare in qualche modo gli studi. Per lui il tempo è prezioso e occorreva prepararsi ai tempi del dopo, quando la pace non sarebbe stato il frutto che cadeva spontaneamente dall’albero, ma andava preparata, occorreva organizzare un tessuto sociale capace di lasciarsi alle spalle odi e prevaricazioni per instaurare nuovi rapporti – di rispetto e amicizia – tra le persone e le istituzioni. E la cultura – per lui – giocava un ruolo decisivo, dirimente.
Nicola Sordo ci tiene a sottolineare con forza questo aspetto: la sua vocazione per la formazione delle giovani generazioni. L’importanza della cultura nella formazione della persona. Decisiva, fondamentale. In una lettera alla cognata Olga sollecita ad essere piuttosto esigenti nell’educazione dei figlioli, che – sono parole sue – risultano “come tenere pianticelle che devono essere coltivate” con cura e amore, la esorta a dare delle direttive, anche decise, a non transigere, a non essere troppo molli; l’educazione richiede energie e impegno, fatica, sbagliano – osserva – quelle mamme che sono troppo accondiscendenti e non fanno valere un proprio preciso punto di vista nell’educazione.
Anche nel campo suo proprio di elezione, quello religioso, si dimostra aperto, attento alle persone prima ancora che alla dottrina, in questo certamente antesignano, anticipatore. Il sabato è fatto per l’uomo, non viceversa. Sempre all’amato fratello Ermete che sta per sposare una donna russa, Olga (la nonna di Nicola) e che trova ostacoli e dinieghi in famiglia per il fatto che lei è di religione ortodossa, raccomanda di saper distinguere le priorità alla luce del vangelo, che prima di tutto viene l’amore, l’instaurarsi di un rapporto di affetto e il programmare insieme la vita comune nel rispetto e nell’amore, poi viene tutto il resto, come a dire prima l’uomo, l’amore, poi la legge.
In paese e nella vita di professore ed educatore, numerose persone si rivolgono a lui per un consiglio, per esporre i propri travagli e fatiche di vivere, per avere una luce. Don Narciso si dimostra generoso e altruista – era nella sua indole, nel suo carattere, questa generosità, improntata alla spirito del Vangelo. Dimostra anche una maturità certamente maggiore rispetto alla sua ancora giovane età. Ama molto andare in montagna, tiene la tessera del Touring (siamo nella metà degli anni Venti). Non disdegna, anzi cerca le amicizie belle, la compagnia, è di carattere aperto, socievole, gli piace giocare coi suoi nipotini, diventa bambino anche lui nel gioco e nello svago, persino un po’ burlone (del resto, anche dalle fotografie emerge il suo bel volto sorridente, lo sguardo solare, un modo di fare schietto, coinvolgente).
Caricato a Bolzano su un treno piombato, don Narciso Sordo, insieme agli altri prigionieri, dopo un viaggio faticoso durato 3 giorni e 2 notti, arriva al campo di sterminio di Mauthausen, in Austria, l’11 gennaio 1945. Le testimonianze – numerose e concordi – raccolte testardamente da suo fratello Ermete dicono di un lavoro al recupero metalli, prima al blocco 8 e poi al blocco 9. Ma raccontano soprattutto di un uomo che anche in quelle terribili circostanze al limite rimane se stesso, quello che è sempre stato. Un uomo generoso, un umile cristiano. Elargisce parole di incoraggiamento a chi è prostrato; fa da interprete; spartisce quel poco cibo che gli danno con chi ha più bisogno; solleva, soccorre, a volte basta un sorriso, uno sguardo. Anche qui, il fatto di parlare il tedesco l’avrebbe potuto avvantaggiare, una qualche scappatoia per imboscarsi l’avrebbe trovata, ma non se ne avvale se non per aiutare qualche compagno di cella.
Le lettere giunte al dottor Ermete sono chiare: sono di ammirazione per quell’uomo dai gesti luminosi nel buio della condizione, “suo fratello si è prodigato per gli altri fino a quando aveva ancora un po’ di forze”; “teneva alto il morale di noi prigionieri”.
Alla fine era molto deperito, dimagrito, debolissimo, prostrato dal punto di vista fisico, integro – per quanto possibile – nel morale e nello spirito; lo soccorreva la sua fede, incrollabile. Smistato nel vicino campo di Gusen, quando mancavano ormai pochi giorni all’inizio della primavera, il fisico di don Narciso Sordo soccombe agli stenti e alle scudisciate, una persistente dissenteria non gli dà scampo, è esausto. E’ la fine. Il suo corpo è gettato poi in una fossa comune.
Nicola Sordo è riflessivo e mesto e però orgoglioso e fiero di questo suo zio caduto ormai “nel solco” tanti anni fa. Vorrebbe coltivarne la memoria, vorrebbe che quell’uomo e quel cristiano esemplare non venisse dimenticato specie dai giovani. Perseguire la pace, coltivare relazioni generose e sincere tra le persone, sapere superare ostacoli e difficoltà in nome della comune umanità è un programma umano che certamente sarebbe piaciuto a don Narciso, quel sacerdote che avrebbe potuto salvarsi e ha scelto invece di condividere la sorte di tanti sommersi.
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