Al festival Tutti nello stesso piatto il protagonista della lotta al caporalato. Che adotta anche, per raggiungere un pubblico più vasto, il linguaggio cinematografico
Era arrivato in Italia, nel 2007, inseguendo un sogno e si è ritrovato dentro un incubo. Yvan Sagnet, camerunense, è oggi in Italia il simbolo della lotta al caporalato. Quello greve, di chi trasporta su mezzi sgangherati lavoratori italiani e stranieri impiegati nella raccolta nei campi, ma anche di quello che lo stesso Sagnet chiama “il caporalato 2.0”, quello dei colletti bianchi che operano all’interno della grande distribuzione (Gdo) e nelle multinazionali dell’industria agroalimentare.
Sagnet – che a Trento era già stato nel maggio 2015 su invito del Forum Trentino per la pace e i diritti umani – ha portato la sua testimonianza al Festival “di cinema e cibo” Tutti nello stesso piatto, promosso da Mandacarù Onlus, cooperativa di commercio equo del Trentino, e da Altromercato, la maggiore organizzazione di commercio equo e solidale in Italia. Prima delle sue appassionate parole, a presentare la sua esperienza di bracciante nei campi del sud Italia – lui, studente di ingegneria al Politecnico di Torino, grazie a una borsa di studio, aveva deciso di mantenersi così nel suo soggiorno in Italia – è stata la proiezione del pluripremiato cortometraggio “Jululu” diretto da Michele Cinque e già portato alla Mostra del Cinema di Venezia e al Milano Film Festival.
Sagnet è la voce narrante, e uno degli interpreti, di questo film potente che racconta come un viaggio musicale un angolo di Africa nel sud Italia: i ghetti dei lavoratori immigrati che sorgono nella provincia di Foggia durante la raccolta del pomodoro. Nonluoghi, popolati da invisibili, ridotti in schiavitù per profitto.
Sagnet, che nell’estate 2011 è stato un importante esponente delle rivolte dei braccianti che hanno poi portato all’approvazione della prima legge sul caporalato, attraverso i suoi pensieri estende la critica sociale dal ghetto fino all’intero perverso sistema economico che determina le condizioni di questa nuova schiavitù. E che si tratti di schiavitù lo ha detto nel luglio scorso la sentenza in primo grado della Corte d’Assise di Lecce del processo Sabr, nato e sostenuto dalle denunce e dalle testimonianze di Yvan Sagnet.
La rivolta contro i caporali, ha spiegato Sagnet, è stato il primo momento di presa di coscienza che nelle campagne pugliesi c’era lo schiavismo. Da lì si è avviato un processo politico che ha portato all’approvazione della legge contro il caporalato. Una legge però ancora largamente insufficiente, ha ammonito Sagnet, perché colpisce i caporali e le aziende che se ne servono, ma non incide sulle cause reali del fenomeno. Sono i “generali” del caporalato, ha detto Sagnet, che stabilendo prezzi e condizioni di mercato insostenibili costringono i produttori agricoli a imporre condizioni di lavoro da schiavi.
Per passare dalla protesta e dalla denuncia alla proposta, Yvan Sagnet propugna l’adozione di un modello economico alternativo a quello che le grandi imprese impongono, basato non sullo sfruttamento (dei lavoratori così come delle risorse naturali) e sul consumo, ma su principi di sostenibilità, innovazione dei processi e dei prodotti, produzione di ricchezza distribuita. Per dare gambe a questo sogno, è nata la rete No Cap che mette insieme realtà diverse che hanno già iniziato a lavorare al cambiamento: gruppi sensibili a una filiera pulita come i supermercati del gruppo Megamark, associazioni di produttori come Altragricoltura (circa 50 mila imprenditori agricoli) o il consorzio Altromercato, che sugli scaffali delle Botteghe del mondo propone la passata Tomato Revolution.
E’ una piccola, ma potenzialmente destabilizzante rivoluzione nel settore agroalimentare quella avviata da No Cap, che ha individuato alcuni punti irrinunciabili, enunciati da Sagnet nel suo intervento: niente sfruttamento di manodopera, rispetto per l’ambiente e per la salute dei cittadini, decarbonizzazione dei processi produttivi (puntando sull’autoproduzione di energia rinnovabile), finanziamento etico delle attività di impresa (microcredito, crowdfunding…), ritorno alla filiera corta e locale. E in questo ha trovato sponda nelle parole di Alessandro Franceschini, vicepresidente di Altromercato, che ha ricordato come in Italia con il marchio Solidale Italiano i prodotti delle cooperative sociali sono entrati nelle Botteghe del mondo: un’attenzione alla realtà emergente dell’economia solidale che si vuole far crescere e rafforzare.
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