L’iniziativa referendaria dei governatori leghisti di Lombardia e Veneto ha rilanciato il tema
I corsi e i ricorsi sono una caratteristica della vita politica. Così non c’è da meravigliarsi del ritorno della prospettiva dello stato regionalista, dopo che le varie ingenuità di Bossi sul secessionismo erano state archiviate e che una serie di scandali sulle spese allegre delle regioni (e sui deficit che ne affliggono alcune) aveva spinto la riforma Renzi-Boschi a rimettere parzialmente in auge il mito della superiorità del centralismo statale. Adesso l’iniziativa dei governatori leghisti di Lombardia e Veneto, che abilmente hanno deciso di chiedere “al popolo” se era interessato ad ampliare le competenze della regione, ha rilanciato, grazie al successo arriso all’iniziativa, il tema del regionalismo come fondamento possibile per un rinnovamento della democrazie italiana.
Se sarà effettivamente così è tutto da vedere. Al momento prevalgono le dichiarazioni per la campagna elettorale: tale è l’annuncio di Zaia di chiedere per il Veneto uno statuto speciale, tali sono i pronunciamenti su possibili tagli delle tasse grazie alle nuove autonomie. Intanto la prima cosa da registrare è che non ci sono i tempi per far andare in porto anche una normale applicazione dell’articolo 116 della Costituzione, cioè una concessione di ulteriore materie da trasferire alla competenza regionale. Occorre una legge con sistema di approvazione rafforzato in entrambe le Camere, cioè una procedura impossibile in un parlamento a fine legislatura che sarà bloccato a lungo sulla legge di stabilità, quando non ci si può occupare d’altro. Senza contare che ai governatori leghisti conviene attendere il nuovo parlamento della primavera 2018 quando hanno buone probabilità di avere un contesto più favorevole di quello attuale (forse addirittura un governo “amico”).
Il problema più grosso al momento sarebbe quello di richiamare tutti ad un sano realismo: proclamare che adesso tutte le regioni devono indire referendum per ottenere più poteri è estremamente pericoloso. Una quota non piccola delle regioni non sarebbe assolutamente in grado di reggere in una situazione di autonomia rafforzata e la situazione economica italiana di tutto può avere bisogno tranne che di nuovi buchi nelle finanze regionali.
Sarebbe serio che invece già il governo attuale varasse un iter di studio per rivedere il nostro sistema del regionalismo, visto che quello introdotto con la riforma pasticciata del 2001 non ha dato buona prova. Solo prospettando un serio orizzonte di ripensamento dei nostri equilibri costituzionali si potranno contrastare le fughe in avanti dei populismi che allignano in tutti i partiti.
Purtroppo di questo tipo di maturità riformatrice non c’è traccia. Già si è visto come sono andate le cose con una riforma elettorale che alla fine si deve far passare a colpi di fiducie con le opposizioni scatenate a gettare benzina in tutti i focolai populisti attivi. Peggio che peggio sulla questione della crisi delle banche.
Qui Renzi ha dimostrato la sua incapacità di resistere alle pulsioni del bullismo politico, quello che pensa sempre di prevalere con una battuta in più e con una rincorsa a presunti istinti popolari che poi non si sa quanto siano davvero diffusi. Attaccare il governatore di Bankitalia come responsabile di un sistema ispettivo che funziona male è farisaico, per la semplice ragione che se si vuole davvero che quel sistema possa dispiegare a fondo i suoi effetti di tutela della fede pubblica, bisogna armarlo con un quadro legislativo che attualmente manca. Fino ad alcuni anni or sono si poteva contare forse sul potere di dissuasione di una autorità bancaria che incuteva rispetto a prescindere. Purtroppo è da tempo che un sistema bancario in mano a gestioni politicizzate e localizzate ha perso ogni senso di riverenza verso Bankitalia, certo di potersela sempre cavare vuoi per le coperture politiche di cui gode, vuoi per le complicazioni di un sistema legislativo che consente navigazioni azzardate, vuoi per la copertura che gli ha garantito la consolidata convinzione che sia troppo pericoloso per la credibilità del sistema Italia mettere in piazza le pecche del nostro sistema bancario.
Purtroppo né Renzi, né il sistema politico in generale, né, ammettiamolo, gli opinion leader sono stati capaci di imporre che di riforme si discutesse e non di discutibilissimi slogan per contendersi voti nei talk show.
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