“Non sono hijos inutili”

Un momento di gioco e comunità
Venerdì al cinema comunale, Daniela Salvaterra, infermiera e missionaria laica, racconta l’intensa attività che sta svolgendo da oltre un decennio in Perù a fianco di giovani con disabilità psichiche e fisiche.Bambine e bambini, ragazze e ragazzi. Abbandonati perché gravemente malati. Disabilità fisiche e psichiche di ogni tipo, gravi, in certi casi con possibilità terapeutiche nulle, il semplice mantenimento dell’esistente. È a Encanada, sperduto paesino a 3 mila metri sulle Ande peruviane che Daniela Salvaterra, infermiera di Tione, ha fondato la sua missione.

Ha cominciato lei, ma oggi sono in tanti in Trentino e anche fuori, a condividere in qualche modo quell’iniziativa solo apparentemente impossibile. Era cominciato tutto nel 2003 quando Daniela era partita volontaria per le Ande, per sei mesi, la prima tappa a Cajamarca dove opera padre Alessandro Facchini, prete di Brescia, insieme ad altri volontari. Dovevano essere pochi mesi ma sulla sua strada, Daniela, trova Blanca, oggi 25enne, allora una bambina in stato di semi-abbandono, non essendo in grado, i suoi, di garantirle un minimo di adeguata assistenza.

Un’artrite reumatoide aggressiva e degenerante le toglie via via l’uso delle articolazioni e la rende praticamente immobile. Daniela la trova davanti alla sua casupola di terra, avvolta in uno scialle che si lamenta e piange. È la svolta per questa infermiera di Tione, il Perù non lo lascia più.

Una serata di fine settembre ha visto all’oratorio di Sant’Antonio a Trento una fitta, davvero numerosa assemblea di persone che sostengono il progetto umanitario e cristiano di Daniela Salvaterra. E stupisce positivamente che molti sono giovani, ragazze e ragazzi, che sono stati travolti dal contagioso esempio di Daniela.

Sono trascorsi quasi 15 anni e la comunità di Encanada è cresciuta e si è irrobustita sempre di più. Nel 2008 è stata inaugurata Casa Madre Teresa di Calcutta che oggi ospita 64 persone e nel 2014 si è data vita a Casa Giuseppe Cottolengo, destinata all’assistenza degli uomini, oggi una trentina. Abitazioni confortevoli e dignitose, sobrie e agili nella loro struttura, un porticato e un bel prato in centro.

I suoi “ospiti”, Salvaterra li conosce uno a uno, sono giunti poco per volta in questi anni, sono stati portati là, a nessuno di quelli che hanno bussato (per mano di qualcuno, un parente, conoscenti, qualche assistente sociale) Daniela ha saputo dire di no, che non c’è posto. E ognuno è un “caso” grave, disperato.

Nelle due Case a nulla è lasciato al caso. Ci sono orari da rispettare: corsi di fisioterapia, canto; lavori al telaio a tessere o ricamare per chi è capace; ascoltano la musica, a tutti è riservato un posto per manifestare al meglio se stessi secondo le proprie capacità; i pasti vengono consumati assieme in allegria e mitezza; gli ospiti più grandi aiutano quelli più piccoli, li imboccano, li prendono in braccio, ci sono anche scenette da ridere e il tutto avviene in spontaneità e allegrezza.

Metà delle persone accolte sono totalmente dipendenti dagli altri, non parlano, devono essere imboccate. “È importante chiamarli per nome –dice Daniela- non sono un gruppo, una massa, ciascuno conserva la propria identità e deve conservarla. Così si queste ragazze e questi ragazzi si emozionano, sorridono, fanno mille gesti che esprimono riconoscenza per l’affetto che li circondano”. Hijo inùtil, un figlio inutile, dicono qualche volta i genitori. Per Daniela no, non un peso ma un dono. Che accoglie a braccia aperte.

“Ogni mese c’è la preoccupazione di non farcela- osserva ancora – contiamo molto sulle donazioni, anche piccole, sugli aiuti spontanei. Sentiamo viva la presenza della Provvidenza quando meno te lo aspetti!”. Si tratta spesso di adozioni a distanza, non ai singoli ospiti, ma alle due Case nel loro complesso in tutte le persone che vengono ospitate.

È la sera che arriva il momento di maggiore attenzione per tutte le persone che le sono affidate: “Non riesco a ritirarmi se prima non faccio un giro a vedere che tutti stiano bene nel proprio letto”. Deve costargli essere qui in Italia (è arrivata con Emily, una vivacissima bambina di 15 mesi con sindrome di Down, bisognosa di cure particolari) ad Encanada la aspettano. Ma Daniela è tranquilla, sa che nel frattempo si è costruita intorno a lei e ai suoi piccoli e grandi amici una rete fitta di amicizie e co-responsabilità.

Una quindicina di giovani nei primi mesi di quest’anno si sono avvicendati in quel paesino sulle Ande; un’altra infermiera, Stefania, già da tempo lavora con lei; quei suoi “figli” non sono abbandonati. Però la voglia di tornare rimane tanta. “C’è un filo che lega tutte le persone e tutte le cose” non è uno slogan, è la realtà che questa giovane donna ha saputo creare in questi anni.

È il filo che lega Encanada e il Trentino. Che poi non vuol dire solo quei piccoli, preziosi avamposti della carità che sono Casa Madre Teresa e Casa Cottolengo ma un territorio più ampio, i dintorni di Encanada e infatti capita sovente che Danielita è chiamata sugli aspri declivi andini a far visita a una coppia di anziani che vivono in un tugurio senza elettricità e senza acqua, sono casette sparse, piccolissimi agglomerati, un cammino a volte che dura ore ma lei sembra non sentire la fatica e va avanti perché la aspettano.

E anche qui in Trentino la rete di sostegno si è via via allargata, è data dal passaparola, dalle serate che si organizzano che quando uno sente queste cose non può tornarsene a casa indifferente, si interessa, coinvolge altri e così aumentano anche le donazioni che non significano solo qualche denaro, ma coinvolgimento, interesse, passione per questo autentico miracolo che giorno dopo giorno avviene negli impervi pendii andini.

Ma pure da noi nel “tranquillo” Trentino smuove coscienze, interpella, non lascia certamente tranquilli. Señorita Danielita fra un po’ torna a Encanada, il posto dove ogni nuovo ospite è un dono del Cielo.

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