Crisi politica e prospettive di riforma nel convegno del “Rezzara”. La sensazione dell’inadeguatezza delle istituzioni riaccende i separatismi
L’opinione diffusa dell’inadeguatezza delle istituzioni di fronte ai profondi cambiamenti del nostro tempo, le chiusure nazionalistiche e il riaccendersi del separatismo all’interno degli Stati, esigono una ridefinizione delle idee di democrazia e di popolo e un’analisi delle radici del populismo, in quanto catalizzatore del disagio. Con il titolo “Popoli, populismo e democrazia” si è svolto il 29 e 30 settembre presso l’Istituto di Scienze religiose a Monte Berico il 50°Convegno di Studi internazionali dell’Istituto Rezzara di Vicenza, promosso e condotto dal prof. mons. Giuseppe Dal Ferro, direttore del Rezzara. Per lo “storico” cinquantesimo sono stati inviati messaggi da Papa Francesco tramite mons. Nunzio Galantino, dai titolari delle istituzioni e la Medaglia Premio di rappresentanza del Capo dello Stato.
Tutti i popoli e gli uomini di ogni generazione sono chiamati a partecipare al Popolo di Dio e al Suo Piano di salvezza dal male nella storia. Alla costruzione di questo “modello di popolo” i cristiani devono cooperare ed esserne il fermento. Lo ha ricordato nella prolusione mons. Silvano Tomasi, Segretario delegato del Pontificio Consiglio giustizia e pace.
Relatori del convegno i docenti universitari Monica Simoni (Università del Sannio), Fabio Turato, Fabio Bordignon, Elisa Lello, Ilvo Diamanti (Università di Urbino), Stefano Ceccanti (Università La Sapienza di Roma), Marco Mascia (Università di Padova), Simona Beretta (Università Cattolica, Milano). I loro interventi hanno evidenziato l’interdipendenza delle criticità e dei problemi. Il deficit di fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, espressione della democrazia per delega, ha come corrispettivo l’affermazione del populismo in tutta Europa, incrociato con il nazionalismo. Multiforme e metamorfico, facendo appello alla democrazia diretta, in quanto potere del popolo, si è proposto come terapia delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Sono note a riguardo le strategie comunicative messe in atto attraverso i social media dal M5S, che con l’assunzione di cariche pubbliche è entrato “nel gioco delle istituzioni democratiche” ed ora cerca di conciliare le nuove responsabilità con i dati genetici identitari.
Ma è pensabile, ancor più in società pluralistiche e complesse, l’esercizio di una democrazia diretta, dove tutti decidono su tutto senza mediazioni anche quando siano richieste specifiche competenze? Che si tratti di un’utopia si intravede anche in noti riferimenti simbolici: l’agorà di Atene non era indenne da interferenze demagogiche e la “volontà generale” di Rousseau, cara al M5S, prevede regole e limiti. Anche i referendum sono regolati da leggi e pre-orientati.
Il problema è piuttosto quello della comunicazione, del superamento della distanza fra società e istituzioni, valorizzando in primo luogo i corpi intermedi (partiti, sindacati, categorie, associazioni).
Nella prima Repubblica erano i partiti di massa DC e PCI, fra cui s’inserì il PSI, a mantenere il collegamento con una parte consistente dell’elettorato, che si riconosceva in loro con l’ausilio anche dell’ideologia. Con la seconda Repubblica (1989) e la crisi delle ideologie, gli strumenti di partecipazione tradizionali e la classe politica sono delegittimati. S’instaura una democrazia instabile, dall’identità incerta, fondata su aggregazioni intorno a un capo carismatico, su partiti personali e su partiti di portatori d’interessi (cartellizzazione) I talk show celebrano la “democrazia del pubblico”, in quanto tale passivo.
Negli ultimi anni la crisi economica, i flussi migratori, la globalizzazione acuiscono l’insofferenza e l’estraneità nei confronti della politica e con la nomina da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di Mario Monti a Presidente del Consiglio, la nostra Repubblica parlamentare assomiglia sempre di più a una Repubblica presidenziale.
Ma la crisi degli Stati europei non è separata da quella dell’UE. La loro chiusura rispetto alle politiche europee ha messo in discussione il suo modello intergovernativo di governance. In una prospettiva di riforma, da un lato si valuta la potenziale sostenibilità per l’Europa di una statualità in forma federale; dall’altro se possa continuare ad essere il “razionale contenitore”, in cui gli Stati coesistono come soggetti primari di governance. A proposito, è stata citata dai relatori l’individuazione nel recente libro di Sergio Fabbrini (“Lo sdoppiamento, una prospettiva nuova per l’Europa”) di due linee di frattura nei confronti dell’UE, una Est-Ovest, determinata dall’”inevitabile” allargamento ai Paesi dell’Est: sovranista, contraria alla moneta unica, ecc., l’altra Nord-Sud degli Stati del Nord Europa, sovranisti e contrari a proposte di una più compiuta integrazione politica.
Lo sdoppiamento dell’attuale UE e insieme “un’unione federale di tipo composito” potrebbero preservare l’Europa dal declino. Con il progetto etico-formativo e giuridico in ambito internazionale per l’estensione dei diritti e del bene comune a tutti i popoli, presentato nella sua relazione dall’economista Simona Beretta, il convegno si è chiuso con uno sguardo rivolto al futuro.
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