“C’è il rischio concreto che diventi più importante precisare in cosa si deve credere, piuttosto che vivere le cose credute”
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L’alba
Il tempo che stiamo vivendo ha, per alcuni, i colori del tramonto. Per altri ci stiamo addentrando nelle prime luci dell’alba. A unire le due percezioni è la penombra, manca la luce chiara del giorno. Tuttavia, frequentare il chiarore del mezzogiorno non è nelle corde della vita credente. Per loro natura, l’uomo e la donna di fede, come pure la comunità cristiana, vivono tra il “già” e il “non ancora”. Non è casuale che per descrivere il credente ricorriamo all’immagine del viandante, del nomade, del pellegrino. Nel suo DNA c’è il camminare, non l’arrivare; la precarietà della tenda, non la sicurezza della casa. Il suo habitat è il campo dove, accanto al grano buono, cresce la zizzania (cfr. Mt 13, 24-30); è il mare aperto, con l’acqua che s’increspa e talora diventa tempesta, non l’ancoraggio nelle placide acque del porto.
Svelo così la mia personale posizione circa l’ora della storia che stiamo vivendo: la penombra che l’avvolge annuncia le prime luci dell’alba, non i riflessi del crepuscolo. Il mio non è un ottimismo di maniera, ma sgorga da Gesù di Nazareth, dalla sua Pasqua di Morte e Risurrezione, dalle sue inequivocabili parole circa il travaglio che accompagna l’attuarsi del Regno.
La foresta
Nel tentativo di trovare un’immagine sintetica per descrivere l’oggi della nostra vita ecclesiale e pastorale e ipotizzare insieme chiavi di futuro, mi sono imbattuto in un bel testo del gesuita belga Fossion: “Rimboschire la foresta dopo la tempesta”, una parabola per il nostro tempo.
Nel dicembre 1999, un uragano si è abbattuto sull’Europa, in modo particolare nell’est della Francia, con venti a più di 150 Km all’ora. Si stima che 300 milioni di alberi siano andati perduti.
Dopo la catastrofe, i tecnici hanno subito elaborato programmi di rimboschimento. Una volta attuati, gli ingegneri forestali hanno costatato che il bosco li aveva anticipati. Hanno osservato una rigenerazione più rapida di quella prevista, che veniva paradossalmente a ostacolare i loro progetti. Sotto molti aspetti, la rigenerazione naturale della foresta manifestava una migliore biodiversità. Alcune specie, rimaste soffocate dal vecchio bosco, ora rinascevano.
Dalla ricostruzione pianificata, si è così passati a una strategia di accompagnamento dell’opera della naturale. La foresta ha anticipato gli uomini, ha riattivato specie che si credevano scomparse, sui ceppi rovesciati è rifiorito il bosco.
Leggo in quella foresta il Regno di Dio: ci sorprende, ci anticipa, riutilizza tronchi spezzati, spiazza le nostre alchimie pastorali, s’insedia dove mai avremmo immaginato. L’angelo è perentorio con le donne: “Presto andate a dire ai suoi discepoli: “E’ Risorto vi precede in Galilea; la lo vedrete.” (Mt.28,7)
Popolo della Promessa
Come Abramo, anche la nostra Chiesa, è provocata dal suo Signore: “Vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre verso la terra che io t’indicherò” (Gen 12,1). C’è una Terra Promessa davanti a noi. Come l’antico patriarca, anche noi siamo diffidenti nei confronti del Dio della Promessa. La tentazione di percorrere strade nostre, di immaginarci una nostra Terra Promessa, è molto grande. Il rischio è di addomesticare il Dono di Dio, piegarlo ai nostri desiderata, individuare un regno nostro, anziché frequentare il Regno di Dio. Come Abramo, anche noi, impazienti e sfiduciati lasciamo uscire dalle labbra il lamento: “Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli, e l’erede della mia casa è un altro” (Gen 15,2). Come a Sara, anche alla nostra Chiesa capita, dopo aver riso della promessa di Dio (Gen 18,12ss.) di dover costatare la sua fedeltà: “Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!” (Gen 21,7).
Quando penso alla nostra Chiesa, vedo la sua fecondità. La vedo in tante comunità sparse nel nostro territorio diocesano, fatte di gente normale, ordinaria, semplicemente alle prese con i compiti della vita. Il corpo della nostra Chiesa diocesana è questo tessuto umano, dove uomini e donne di qualsiasi condizione tengono vive reti sociali, senza le quali interi contesti di vita resterebbero privi di un minimo centro di gravità. Non ha importanza se non tutti si accorgono della loro presenza. Questa è la nostra Chiesa: gente qualunque che, provando a organizzarsi in comunità, traduce la propria adesione al Vangelo, in gesti di concreta vicinanza e prossimità.
Questo è il Regno di Dio: una madre che si china sul proprio figlio ammalato e ne asciuga le lacrime, un povero che condivide con i suoi compagni di sventura il poco che possiede, un vicino di casa che si accorge che hai un problema e ti offre il suo aiuto, il perdono regalato davanti a un torto subito, spazi del tuo tempo abitati dalla gratuità, un migrante accolto e riconosciuto come fratello, un uomo e una donna che rinnovano la loro fedeltà, altri che vivono la lacerazione con dignità e speranza.
Un mondo plurale
In questi anni, autorevoli osservatori credenti e non, hanno fatto notare come l’azione ecclesiale si trovi a muoversi in un mondo laico e plurale, uscito definitivamente dall’orizzonte della cristianità.
Come fa notare il teologo G. Ferretti: la “cristianità” da paese ospitale per il popolo cristiano si è in seguito trasformata in una prigione di cui Dio, Signore della Storia, ci sta liberando e ci invita a liberarci, accogliendo il suo invito a metterci in cammino attraverso “il deserto”. (Ferretti, Essere cristiani oggi. Il nostro cristianesimo nel mondo moderno secolare, 13-20).
Sono profondamente convinto che dietro quello che definiamo con una parola forte “ateismo” si nasconda non tanto la negazione del Dio vero, quanto della sua caricatura. L’incredulità odierna, pertanto, sfida la fede cristiana e la Chiesa a “liberare” l’immagine di Dio dalle sue contraffazioni, per mostrare come il Dio di Gesù è non solo l’amico dell’umano, ma ne è la pienezza.
Il Dio mite
Per provare a togliere l’ambiguità che circonda l’immagine di Dio, vorrei invitarvi a camminare sul terreno della mitezza. Mi piace pensare il credente e la comunità cristiana come custodi di un Dio mite.
Ho trovato stimolanti, per dire in cosa consista la mitezza, le parole di un saggio di Barbara Spinelli: “il Soffio del mite” (Qiqajon Magnano Bi 2012).
«Il mite è colui che “lascia essere l’altro quello che è”. Non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere e alla fine vincere. E’ completamente al di fuori della gara, della concorrenza, della rivalità, e quindi anche della vittoria. L’immagine che egli ha del mondo e della storia è quella di un mondo e di una storia in cui non ci sono né vincitori né vinti, perché non ci sono gare per il primato, né lotte per il potere, mancano insomma le condizioni stesse che consentano di dividere gli uomini in vinti e vincitori».
Gesù, quando entra a Gerusalemme, adempie la profezia di Zaccaria, ricongiungendo antico e nuovo Testamento. “Dite alla figlia di Sion: ecco, a te viene il tuo re mite, seduto su un’asina. Ecco viene a te il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile e mansueto, mite. Farà sparire i carri, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare”. (Zc 9,9)
Come scrive Ratzinger in “Gesù di Nazareth”, viene annunciato un re povero, uno che non regna per mezzo del potere politico e militare. La sua natura più intima è l’umiltà, la mansuetudine di fronte a Dio e agli uomini. Questa sua natura, che lo oppone ai grandi re del mondo, si manifesta nel fatto che egli giunge cavalcando un’asina, la cavalcatura dei poveri, immagine contrastante con i carri da guerra che egli esclude. E’ il re della pace e lo è grazie alla potenza di Dio, non in virtù di un potere proprio. E’ mite.
I miti, allora, sono paradossalmente i forti e gli audaci, coloro che sopportano le traversie della vita, senza scoraggiarsi o sentirsi umiliati, non si adirano, non si vendicano, non si sottomettono al male, lo combattono con pazienza e fermezza, senza perdere speranza. Come ricorda Tolstoj, la mitezza non è rassegnazione, ma perdono e amore. Non ha nulla a che fare con la passività, con l’ignavia, ma è espressione di un’energia positiva che è nel cuore della realtà e che bisogna sprigionare, irraggiandola nel mondo.
Testimoni miti
L’azione pastorale è rivelare e custodire il Dio mite. Diversamente, rischia di rimanere puro sforzo organizzativo.
Se il nostro Dio è il Vivente, che ha nei tratti della mitezza la sua forza, se la sua gioia è liberare spazi di vita all’altro, ad accreditarlo non può essere la giocata di singoli che procedono in ordine sparso, ma la forza di una comunità che, anziché “spiegare” il suo Signore, lo mostra, lo fa vedere nella concretezza della propria vita.
Non dobbiamo nasconderci che la preoccupazione dottrinale ha finito per affermarsi, nella storia cristiana, come l’atto di base della vita ecclesiale. C’è il rischio concreto che diventi più importante precisare in cosa si deve credere, piuttosto che vivere le cose credute. Lo dico con estremo rispetto: qualche volta ho la sensazione che la nostra azione pastorale sia uno sforzo immane per far “passare” delle idee, anziché vivere nel qui e ora della storia la gioia del Vangelo. Con questo non voglio mettere minimamente in discussione l’importanza di coltivare l’intelligenza della fede, senza la quale la stessa fraternità cristiana rischierebbe di svanire. Intendo, semplicemente, far notare che se le “parole” della fede non sono praticate, non giovano a nulla.
Il primo compito dei cristiani è rendere possibile una vita evangelica anche in questo momento della storia. Questo compito può essere realizzato soltanto mostrandone la possibilità nella forma della fraternità. Non una fraternità generica di “anime belle” che provano a incontrarsi, ma una fraternità che nasce da Gesù di Nazareth. Il manifestarsi di Dio nell’umanità di Gesù lo rende accessibile a tutti e a ciascuno. Non c’è cultura, popolo, razza, stato sociale che non possa incontrarlo.
Permettetemi una battuta: si crede con il corpo. Paolo ci ricorda: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente santo e gradito a Dio.” (Rom 12,1) Il Regno ha bisogno di gesti di concretezza, struttura se stesso attorno alle parole di Gesù: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”, “Chi vuol essere il primo sia il servo di tutti”, “Amatevi come io vi ho amato”.
Ecco allora il servizio della Chiesa: mantenere visibile per tutti gli uomini il Corpo di Cristo. “Fate questo in memoria di me”. Come Cristo, la sua missione ha una destinazione universale. La Chiesa scopre così, con gioia, che il Regno va oltre i suoi confini. Quando, infatti, la Chiesa scende a lavorare nella storia, si accorge che Dio è già lì dall’alba con le maniche rimboccate. La sua profezia è accorgersi di questo lavoro divino e tentare di aiutarlo, per quello che può.
Diversamente produrrà opere religiose, ma non potrà gustare la gioia del Regno che viene.
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