Le giuste barriere

Quando Donald Trump, da candidato Presidente, bollò lo sbilancio commerciale fra Cina e Stati Uniti come “il più grande furto della storia del mondo”, il New York Times lo accostò con acida ironia a Thomas Mun, un apostolo del mercantilismo (esportare più di quanto si importa) vissuto nel 1600. “Il miliardario di New York – scrisse il prestigioso giornale – sta sfidando gli ultimi 200 anni di ortodossia economica, secondo la quale il commercio tra le nazioni è buono e di più è meglio”.

Eppure l’ostilità per le dilaganti importazioni da altri continenti è diffusa quanto il fastidio per le barriere che all’estero frenano il made in Italy. In sintesi: noi apriamo le nostre porte, gli altri chiudono le loro. Un documento di Confindustria del 2013 censura l’accentuarsi di misure protezionistiche, non solo mediante dazi, ma anche con ostacoli di natura non tariffaria, quali certificazioni, contingentamenti, vincoli burocratici, regolamenti sanitari ecc., talora combinati con il sostegno pubblico a determinati settori industriali. Per converso la stessa Confindustria, in un’audizione alla Camera (gennaio 2017), invoca il rafforzamento dei Trade Defence Instruments, gli strumenti europei concepiti per contrastare le pratiche commerciali illecite e sleali. Fra queste c’è il famigerato dumping, cioè la vendita all’estero a prezzi inferiori a quelli praticati sul mercato interno, approfittando di situazioni monopolistiche o di aiuti dello Stato. Secondo il direttore generale di Cartiere del Garda, Giovanni Lo Presti, il peggiore è il cosiddetto dumping sociale, cioè i minori costi di produzione connessi alla mancata tutela dei diritti e della sicurezza dei lavoratori e dell’ambiente. Una vera piaga, che permette a imprese extraeuropee di praticare prezzi inferiori a quelli di mercato, spiazzando la nostra manifattura. “L’Europa è severa con se stessa e debole con gli esportatori di altri continenti: è come volesse prepararci a «morire sani»”. Morire di fame in un ambiente salubre, perché le imprese chiudono.

Ma se anche noi chiediamo libertà per le nostre merci e restrizioni per quelle straniere, qual è la differenza con i proclami di Trump? “È il fine – sostiene ancora l’ing. Lo Presti: va bloccata l’elusione delle norme d’interesse sociale, non la maggiore efficienza”. L’obiettivo non è blindare le produzioni domestiche, ma la leale competizione, a prescindere da chi vinca, anche fossero le imprese esterne. Un pensiero condiviso nella visione dell’ex direttore di Confindustria Trento, Fabio Ramus: “Siamo stati protagonisti dell’unità europea, in un processo costato «lacrime e sangue»: maggiore concorrenza, vincoli, perdita di leve finanziarie e monetarie, austerità, svalutazione dei redditi fissi. Ma ora l’Europa, pur con le sue contraddizioni, è un sistema più efficiente e più autorevole sui mercati esteri, dove le nostre imprese si presentano non come italiane ma come europee. Eventuali barriere contro il commercio predatorio non contraddicono, ma valorizzano questo nostro modello virtuoso di apertura e di integrazione”.

Dazi e barriere possono dunque difendere i diritti e le tutele insidiati dalla globalizzazione, purché non siano l’alibi per rintanarsi. Perché, come disse Roberto Napoletano (ex direttore del quotidiano Il Sole 24 Ore) “un mondo più giovane, che studia di più, lavora di più e i cui stipendi hanno uno zero meno dei nostri” non si potrà tenere a lungo fuori dai cancelli.

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