Secondo la pratica giapponese del kintsugi, quando un vaso di ceramica si rompe, i suoi cocci devono essere rimessi assieme utilizzando del materiale prezioso. Un’idea sottostà a questa tecnica: dalla debolezza può nascere la forza. Si è fatto riferimento a questa pratica lunedì scorso, quando, nella Sala della Fondazione Caritro in via Calepina a Trento, ha avuto luogo l’iniziativa “Le parole della violenza – Rompere silenzi, dar valore ai racconti”.
L’incontro è stato promosso dalla Commissione provinciale per le Pari Opportunità e dalla Provincia Autonoma di Trento ed era rivolto soprattutto a coloro che lavorano a stretto contatto con donne che chiedono aiuto per uscire da situazioni di violenza. Un compito prezioso e difficile. Se, infatti, è molto importante il momento in cui la donna sceglie di rompere il silenzio, raccontando la violenza, è altrettanto necessario il movimento complementare, ovverosia l’ascolto. Pur rivolto quindi in particolare a un pubblico specialistico, l’incontro era aperto anche a tutta la popolazione. E non avrebbe potuto essere altrimenti, dal momento che, come ha ricordato Giovanna Covi, coordinatrice dei lavori e componente della Commissione provinciale Pari Opportunità, la violenza sulle donne ha una profonda matrice culturale.
Come hanno spiegato Simonetta Fedrizzi, presidente della Commissione provinciale Pari Opportunità, e Sara Ferrari, assessora provinciale alle Pari Opportunità, è necessario responsabilizzare tutta la popolazione su questo tema, attraverso interventi, soprattutto nelle scuole. Un’azione a lungo termine, che, sola, può portare a raggiungere l’uguaglianza di fatto necessaria a contrastare la violenza di genere.
Laura Castegnaro, dell’Ufficio Innovazione e Valutazione del Servizio Politiche sociali della Provincia, ha fornito invece alcuni dati sulla violenza. Nel 2015, in Trentino, si parla di 600 denunce. Bisogna però considerare che queste rappresentano solo il 10% del fenomeno.
Dietro a questi dati c’è il lungo percorso compiuto della donna per uscire dalla violenza. Si tratta di un passaggio difficile, come ha ricordato Antonella Petricone, operatrice del Centro antiviolenza BeFree di Roma, perché, nella maggior parte dei casi, la donna ha una relazione affettiva stabile con chi la maltratta. Accompagnata dall’operatrice del centro antiviolenza, la donna può acquisire consapevolezza, arrivando a vedere la relazione per quello che è: tutto fuorché un rapporto sano.
“Ho imparato a considerare il lavoro di affiancamento delle donne come un’impresa narrativa”, ha spiegato Maria Luisa Bonura, psicologa presso la Fondazione Famiglia Materna di Rovereto. Quando la “sopravvissuta” racconta la violenza, infatti, narra gli episodi recenti e i fatti più cruenti; il lavoro dell’operatrice è quello di aiutare a vedere l’insieme della storia, per capirne le dinamiche.
Un’impresa narrativa che richiede di essere fedeli. Il rischio è quello di occultare la realtà vissuta dalla donna attraverso vaghe perifrasi e, come ha ricordato Elena Biaggioni, avvocata di Trento, di far sparire il soggetto che agisce violenza, l’uomo, che molto spesso rimane in secondo piano.
E’ necessario essere fedeli a questo racconto, non riproponendo, nel caso in cui vi siano minori coinvolti, la visione idealizzata della famiglia con padre e madre. Bisogna guardare ai diritti della persona, ha sottolineato Marcella Pirrone, avvocata di Bolzano. Non tutti i padri e non tutte le madri riescono a garantire il benessere dei figli. Soprattutto in situazioni di violenza.
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