C’è un piccolo, minuscolo popolo che sta soffrendo terribilmente. E’ a rischio sterminio. Non è esagerato dirlo. Contro la piccola comunità Rohingya, minoranza musulmana, è in atto in Myanmar una persecuzione che non conosce fine. Si tratta di bambini, tanti, indifesi; donne, spaurite ma piene di coraggio; uomini che non sanno cosa fare per difendere i propri cari e chiedono perché tanto accanimento contro di loro. Nel silenzio complice della comunità internazionale (solo flebili proteste si sono levate in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, ma, si sa la realpolitik ha le sue esigenze e non bisogna disturbare il manovratore degli equilibri geo-politici).
Le cifre sono capogiro, non solo in termini quantitativi. Quello che lascia senza fiato è il capillare stillicidio che colpisce questa oppressa comunità nazionale. E’ l’Acnur, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati che dà le gelide cifre: l’India ha deciso di espellere 40mila rohingya, rifugiati illegali; i militari birmani fanno sapere di avere ammazzato 399 persone di etnia rohingya. E’ un’altra agenzia umanitaria, Human Rights Watch, a insistere sui numeri: in 20mila circa – donne, bambini, anziani – sono intrappolati nella terra di nessuno tra Myanmar e Bangladesh.
In mezzo a tanto scialo di vite umane – di bambini, donne, uomini anziani: insistiamo su questo per dire di persone in carne e ossa – risulta incomprensibile, e fa male, l’atteggiamento di Aung San Suu Kyi, l’indiscussa leader birmana per i diritti umani che ha patito tutta una vita per la strenua difesa della sua gente sotto la dittatura e che ora appare pavida, silente, di fatto consenziente. Impensabile in una donna coraggiosa come lei.
Non possono essere motivazioni di convenienza le sue, non inimicarsi, cioè, i buddisti per difendere una minoranza musulmana. Eppure le sue poche parole appaiono inequivoche: “Non sono Madre Teresa, ma neanche la Thatcher; e Gandhi era un politico molto astuto, lasciamo le questioni militari all’esercito”. Non può essersi venduta così, a 72 anni, San Suu Kyi, non può avere svenduto la primogenitura per un piatto di lenticchie! Quei corpicini senza vita dei loro figlioli, quelle madri straziate dal pianto, senza più lacrime: sono scene che la leader birmana conosce bene e non può ignorare e per questo – lo diciamo sommessamente ma con passione conoscendo la sua integrità morale e la sua dirittura di coscienza lunga tutta una vita – non può continuare con un atteggiamento pilatesco, lavandosene le mani. Nei media dei circuiti internazionali (in Italia molto meno) è circolata l'immagine dei cadaveri di 19 bambini, 18 donne e 9 uomini che vengono pietosamente ricoperti da un telo. Lo scatto è di un fotografo dell’Associated Press. Quelle immagini devono essere viste anche dalle cancellerie occidentali i cui capi si riempiono la bocca di parole che richiamano alla libertà e alla dignità delle persone e poi non muovono un dito per fare qualcosa. Una vergogna. Ecco un buon banco di prova. Si facciano pressioni sul governo birmano. Non è tollerabile che questo sterminio continui nel silenzio e nell’indifferenza di chi vede e finge di non vedere. Di chi potrebbe fermare questa strage e di fatto rischia di esserne connivente. Non siamo forse responsabili gli uni degli altri? Altrimenti che umanità è la nostra?
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