Il suo impegno nelle comunità ecclesiali di base e nella lotta sindacale e politica, nel Brasile degli anni Settanta, in nome di un’insopprimibile esigenza di giustizia sociale. Che è ancora attuale
Distilla le parole con calma e pacatezza, Luciana Dias da Silva. Quasi che la distanza temporale tra i fatti che hanno segnato la sua vita e quella della sua famiglia e l’oggi abbia innalzato una barriera. Le lotte operaie nella San Paolo di fine anni Settanta, la sete di giustizia, l’esigenza insopprimibile di rimanere saldi in quella fede cristiana che nutriva lo spirito, ma nello stesso tempo alimentava e rinnovava l’anelito alla liberazione integrale dell’uomo e della donna, che si avvertivano schiacciati, oppressi: nell’incalzare delle parole i fatti scorrono come dietro uno schermo, ma poi passione e sentimento prevalgono e la barriera va in frantumi. Si percepisce la commozione, in questa donna e madre che all’epoca dei fatti che ci racconta sbocciava, dodicenne, alla vita. Tanti ne aveva di anni, quando il papà Santo veniva ucciso davanti alla fabbrica Sylvania, durante le proteste operaie, come ha raccontato ai lettori di Vita Trentina don Francesco “Chico” Moser, sul n. 29 del 23 luglio 2017.
Dona Luciana, qual è il ricordo più vivo che ha di suo padre Santo Dias da Silva?
Il suo impegno nelle comunità ecclesiali di base (Cebs) della periferia di San Paolo, che nascevano in quegli anni. E ugualmente il suo impegno nel sindacato e nella pastorale operaia. Pur in presenza di gruppi comunisti, marxisti, socialisti, mio padre non abbandonò mai la fede e diede sempre la sua testimonianza dentro la Chiesa da cristiano impegnato nel mondo del lavoro. Fu sempre profondamente fedele alle sue origini. Era sostenuto e incoraggiato da mia madre e da noi figli in questa azione che mirava a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni più povere delle periferie di San Paolo negli anni della dittatura.
Un impegno stroncato il 30 ottobre 1979 dai colpi di Herculano Leonel della Polizia Militare, mentre partecipava a un picchetto davanti alla fabbrica Sylvania.
Fu la Chiesa, con l’arcivescovo di San Paolo, il cardinale dom Paulo Evaristo Arns per primo, ad essere vicina alla mia famiglia, quando mio padre fu assassinato. In quel momento sentimmo questa vicinanza forte della Chiesa di San Paolo e del cardinale Arns, che sosteneva i primi passi delle comunità ecclesiali di base e, oltre a incoraggiare l’organizzazione della popolazione in comunità, promuoveva linee pastorali che rispondevano alle esigenze sociali del tempo: i diritti umani, la salute, ecc., in un cammino che più tardi fu chiamato la Teologia della liberazione.
Possiamo dire che in suo padre Santo Dias la fede si traduceva in un’insopprimibile esigenza di giustizia sociale. Nel Brasile di oggi c’è ancora questa tensione?
Oggi la forte presenza delle Chiese evangeliche ha dato una accentuazione più spirituale del modo di manifestare la fede. E la Chiesa cattolica, di fronte all’emorragia di fedeli, ha risposto dando forza ai movimenti carismatici, che nella liturgia danno molto peso alla musica, ai canti e alle danze. Ma si è persa l’attenzione al popolo, alla sua condizione sociale che va trasformata e migliorata. Ci sono alcuni movimenti sociali, ma questa tensione direi che manca oggi nelle comunità ecclesiali di base, salvo in alcune zone dove i pastori hanno una più forte coscienza politica. La dimensione sociale della fede oggi è indebolita. Molte delle conquiste sociali che ottenemmo negli anni Settanta, Ottanta e Novanta sono sottoposte ai colpi dell’attuale governo, ma in molti luoghi ci sono movimenti di resistenza che difendono le conquiste democratiche dei decenni passati. Ad esempio, a San Paolo, nel quartiere Jardim Angela ci sono esperienze di lotta e di contrasto alle disuguaglianze sociali.
Disuguaglianze che sono aumentate negli ultimi anni, in Brasile?
Negli anni in cui ha governato Lula molti giovani hanno avuto l’opportunità di andare all’università e così molte persone di colore, che sono ancora discriminate in Brasile, hanno meno opportunità. E anche molti che prima non potevano neppure permettersi un viaggio, hanno potuto viaggiare, molti che non avevano casa l’hanno avuta, molti che pativano la fame hanno avuto da mangiare. Molte di quelle conquiste adesso le abbiamo perdute. Ora in Brasile comandano le imprese e il capitale straniero.
Dona Luciana, vede ancora segnali di speranza o è pessimista sulle sorti del Brasile?
Non possiamo mai perdere la speranza. Dobbiamo coltivare una prospettiva di cambiamento, soprattutto per i giovani. Non possiamo perdere tutte le conquiste che sono costate il sangue dei nostri nonni e dei nostri padri e di tutti quelli che lottarono duramente per conquistare quello che abbiamo oggi: l’istruzione per i nostri figli, un lavoro dignitoso per noi. Ecco perché penso che non dobbiamo perdere la speranza, mai.
Quando suo padre fu ucciso, lei aveva dodici anni. Cosa vorrebbe che restasse dell’insegnamento di suo padre Santo Dias alle sue figlie e alle nuove generazioni?
Il suo insopprimibile anelito alla giustizia sociale. Se ho un pezzo di pane, posso dividerlo e tutti ne avranno un po’ e non patiranno la fame. Ma devo riconoscere che le mie figlie sentono molto questa spinta ad aiutare il prossimo, le persone in difficoltà, e a lavorare per la crescita di tutta la comunità.
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