Sono trascorsi quattro anni da quando, in quei giorni terribili di fine luglio 2013, Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso a Raqqa, in Siria. Non si sa più nulla di lui, se è ancora vivo o se è stato soppresso quasi subito, o dopo, torturato e ammazzato senza pietà. Niente di niente. Il buio più oscuro.
Tornano in mente le parole che un grande poeta laico, Eugenio Montale, scrisse quando morì un grande poeta religioso, Clemente Rebora, nel 1957 dopo dolorosa malattia: “E’ un conforto pensare che il calvario dei suoi ultimi anni – la sua distruzione fisica – sia stato per lui, probabilmente, la parte più inebriante del suo curriculum vitae”. Perché quella sparizione di padre Paolo è stata la conclusione di un suo vero, appassionato, curriculum per e con il popolo siriano.
Pregano e sperano in modo incessante i suoi amici e fratelli della comunità monastica di Mar Musa, un’ottantina di chilometri da Damasco, fondata dallo stesso padre Paolo nel 1991. Sono rimasti in pochi, si contano sulle dita di una mano tra monaci e monache nella comunità guidata oggi da suor Houda. E seguitano ad accogliere profughi, gente sbandata dalla guerra, in preda a mille pericoli e paure. Un piccolo centro ecumenico misto che continua la sua missione, nonostante tutto: promuovere il dialogo tra cristianesimo e islam, insieme alla vita contemplativa, il lavoro manuale per il proprio sostentamento, l’ospitalità abramitica nell’amore e nella meraviglia dei giorni, anche i più difficili, della vita breve. Come se padre Paolo fosse in mezzo a loro. E lo è, nella realtà più profonda, con una presenza intima, intensa, spirituale perché l’amore sopravvive alle avversità, non muore.
“Quando penso a Paolo – dice il fratello Giovanni Dall’Oglio, che lavora con “Medici con l’Africa Cuamm” nel Sud Sudan colpito dalla carestia e dai massacri etnici -, quando penso a Paolo mi viene voglia di abbracciarlo, di offrirgli una spalla su cui appoggiarsi, poter curare le sue ferite se è stato torturato”.
Domenico Quirico, giornalista coraggioso inviato del quotidiano La Stampa, anche lui rapito qualche tempo fa, amico fraterno di Paolo, si dice sicuro che sia vivo. Per ora l’unica cosa certa è la sua scomparsa e la mancanza di una rivendicazione. Dopo quattro anni. Un tempo lunghissimo per i suoi familiari, per chi gli vuol bene. Quello che è sicuro è che in quei giorni di luglio, padre Paolo era arrivato a Raqqa deciso a tentare di chiedere la liberazione di alcuni cristiani sequestrati. La gente gli voleva bene, lo accoglieva nelle case, donne e uomini, anziani e bambini, smarriti come erano tra i bombardamenti e i colpi dei cecchini. Paolo Dall’Oglio che aveva studiato l’arabo e lo parlava benissimo spronava i giovani e gli studenti: “Continuate a studiare, dobbiamo fare sì che la nuova Siria libera sia molto colta.”
Troppo scomodo per tutti i seminatori di odio in quelle terre e in quelle città, amatissimo dalle persone semplici e povere. Inviso al regime di Bashar el Assad, odiato dai fanatici di Isis, padre Paolo sapeva benissimo di essere nel mirino, in costante, imminente pericolo, impegnato in una missione – sono sue parole – “molto delicata”.
Probabilmente risulta decisiva e dirimente ai fini di questa vicenda di passione e di luce, la testimonianza di Riccardo Cristiano, presidente dell’Associazione giornalisti amici di padre Paolo Dall’Oglio: “Mi disse che doveva fare qualcosa perché avvertiva un laceramento delle carni simile alle doglie del parto. Questa è la molla vera per capire. Paolo sentiva che la missione che gli era stata affidata era la Siria. Era la sua frontiera. E non ha voluto abbandonarla”.
E il fratello Giovanni aggiunge: “So che mio fratello non avrebbe potuto rinunciare a quello che ha fatto, ossia cercare di salvare i cristiani rapiti perché avrebbe tradito la sua missione”.
Com’è scritto nel vangelo di Giovanni (15,13): “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
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