Nelle Filippine – questo immenso, sterminato arcipelago dalle tantissime isole – si va dissolvendo ogni parvenza di stato di diritto.
Un presidente-dittatore (a questo punto, sì, perché vanno attenuandosi e scemando sempre più le garanzie di libertà personale e collettiva, l’habeas corpus insomma), eletto a furor di popolo, che sta mettendo a ferro e fuoco ogni angolo del paese.
Rodrigo Duterte, una faccia da mastino per niente rassicurante solo a guardarlo, ha ordinato alla polizia e ai corpi speciali dell’esercito di non andare tanto per il sottile nella lotta alla piccola criminalità, alla droga e al malaffare. Recidere sul nascere, non fare prigionieri. E infatti, specie nei quartieri degradati di Manila, capita che al mattino la gente che esce di casa per andare al lavoro o a fare la spesa al supermercato, si imbatte in corpi sfigurati, fatti a pezzi, l’odore acre del sangue che infetta l’aria. Cos’è capitato? E’ successo che nella notte le squadre paramilitari hanno sfondato le porte delle misere abitazioni dei sospettati, li hanno strattonati all’esterno facendoli stramazzare con un colpo secco alla testa.
Duterte, pubblicamente e più di una volta, ha incitato allo stupro di gruppo da parte dei soldati nei confronti di donne inermi e innocenti, “colpevoli” solo di essere le madri, le sorelle e le mogli delle “canaglie”, la teppa da eliminare.
In questo quadro sociale funesto ha il suo bel daffare – i suoi grattacapi – il card. Luis Antonio Tagle, astro nascente e ormai riconosciuto dell’episcopato asiatico, umile, ma determinato e deciso. Ha incontrato anche recentemente Duterte e nel sollecitarlo, supplicarlo, cercare di convincerlo che non può continuare così è apparso affabile nei modi, come è nel suo stile, ma assai duro, per niente diplomatico nella sostanza. Non possono i suoi preti di periferia seppellire continuamente i morti, sfregiati e irriconoscibili. Non è possibile che uno stato amministri la giustizia negandola e abusando del suo potere in armi. Se nello stato di diritto nessuno può farsi giustizia da sé perché ci sono organi e poteri deputati ad amministrarla, nelle Filippine di Duterte è lo Stato stesso che si fa giustiziere spietato col rischio che esercito e squadre armate “facciano il deserto e alla fine lo chiamino pace” (Tacito).
La popolarità di Duterte? In costante, continua ascesa. La gente è con lui. Il bisogno di sicurezza induce a non fare tante sottili distinzioni. Stroncare sul nascere, essere implacabili: sono queste oggi le parole d’ordine che hanno una facile popolarità specie negli strati popolari più dimenticati e marginali. Se una volta (è un passato recente) la signora Marcos era famosa per il suo corredo personale di scarpe, vantato in qualche migliaio di capi, oggi è Duterte a vantarsi dei morti ammazzati; più ce ne sono, all’alba di notti insonni ed orribili, più si è fatta pulizia, più si è rassicurato il paese.
Anche la comunità internazionale si trova in un “cul de sac”. Come sbarazzarsi di un personaggio impresentabile per il rispetto dei diritti umani, ma popolarissimo nel proprio paese? Non è che Nazioni Unite e Unione Europea – a dire il vero – si facciano tanti scrupoli. La vicenda cinese docet. Il business avanti a tutto, i diritti fondamentali aspettino. Non c’è nessuna fretta.
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