Noi missionari lo diciamo da almeno quattro o cinque decenni: il modo di fare missione è oggi diverso, deve cambiare
Ho letto con interesse e piena sintonia i due articoli di Augusto Goio su don Emilio Paternoster (mi pare strano chiamarlo Monsignore! Non gli farà torto?) e sulla missione in cammino («Siamo tutti migranti» e «Mai seduti!») e quello che i missionari di ritorno in Trentino per le vacanze hanno detto nel loro incontro (Vita Trentina n. 28/2017).
La missione è in cammino, dentro questo mondo che è in cammino, anzi che fugge, che è un runaway World, come lo chiama Anthony Giddens. Non è possibile fermarci sulla strada della missione e, se lo facciamo, è obtorto collo, perché non possiamo far diversamente o per malferma salute o, più difficile, per obbedienza. La missione, infatti, è segnata da quell’«Andate…» che Gesù ha detto all’inizio e che continua a risuonare nel cuore del missionario e nell’oggi della chiesa fino a essere la molla della sua vita: quando la chiesa si ferma sulla strada, è segno che è malata, insegna Francesco. Ma forse anche il nostro essere qui nelle chiese d’origine ha un senso: aiutare la chiesa di qui a prendere il passo e il ritmo giusto. Se la chiesa è una «chiesa in uscita», non può rimanere inerte, deve raggiungere questo mondo in confusione con la lieta notizia della speranza cristiana, del vangelo del regno.
Proprio perché la missione è «in cammino» («strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino») deve riconoscere che essa si svolge in scenari diversi da quelli conosciuti finora. Questo la costringe a cambiare stile. Noi missionari lo diciamo da almeno quattro o cinque decenni: il modo di fare missione è oggi diverso, deve cambiare. Lo ripetiamo in tutti i modi e su tutti toni, nei nostri capitoli, nelle riunioni e sulle riviste… ma quanto è difficile abbandonare uno stile di missione che era – ed è – molto gratificante! Noi anziani facciamo una fatica boia ad abbandonarlo perché ha segnato profondamente la nostra vita, perché è diventato il senso della nostra vita. I nostri fratelli più giovani, liberi per sé dalle nostre tradizioni, potrebbero innovare, ma spesso rimangono contaminati dai nostri metodi e ci seguono sulla strada di una missione ricca di opere e di attività che abbagliano la gente e la seducono, ma non la liberano. I confratelli/sorelle che vengono dai paesi poveri, a loro volta, sono essi stessi abbagliati (o ammaliati) dalle grandi opere della missione del recente passato e tendono a ripeterle. Insomma, quanto è difficile cambiare! Paradossalmente, anche la gente qui da noi, che ci segue e ci aiuta con affetto e simpatia, contribuisce senza volerlo a rendere difficile questo cambiamento di rotta.
Però… questo cambiamento è necessario, la maniera di essere missionari non può più essere quella che abbiamo ereditato dai nostri predecessori, uomini e donne eroici e coraggiosi, segnati dalla stagione coloniale, quando si era convinti di dover portare «fede e civiltà» (titolo della rivista dei Missionari Saveriani fino al 1978!). Oggi capiamo che non abbiamo nulla da portare, perché andiamo noi stessi a cercare Dio e a scoprire – «laete et reverenter», con letizia e senso di adorazione dice il decreto Ad Gentes (n. 11) – le tracce del passaggio dello Spirito Santo (i «semi del Verbo») nelle culture dei popoli e nelle religioni. Una cosa sola dobbiamo portare con noi: la testimonianza di vita cristiana, fatta di «fede del Figlio di Dio» (Gal 2,20) e di «fede che opera attraverso la carità» (Gal 5,6), i due contenuti essenziali della vita cristiana. Se riusciremo a viverli personalmente, essi renderanno credibile e attraente la nostra testimonianza anche senza parole, perché mostreranno il volto di Gesù, il «Bel Pastore» che ha dato la vita per noi e attireranno lo sguardo di coloro che cercano Dio magari nelle altre religioni. Francesco, citando Benedetto XVI, in Evangelii gaudium n. 14, ha detto che «la chiesa non cresce per proselitismo», per la forza di seduzione delle nostre parole e della nostra capacità imprenditoriale neppure nell’ambito dell’educazione o della sanità, ma «per attrazione», per la bellezza cioè di quello stile di relazioni che Gesù ci ha insegnato, fatto di attenzione e misericordia, di cura dei poveri e degli «scarti» della società e per quella vita di comunione che è un segno del regno futuro. Questa è, secondo Francesco, l’evangelizzazione autentica.
Su questa linea sta il cambiamento di rotta e di stile che noi missionari dobbiamo mettere in atto: vivere la missione nella semplicità delle relazioni, nella carità gratuita, nel saper spendere tempo per stare con gli altri, per ascoltarli e rispondere «con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (1Pt 3,16) alle «domande irresistibili» che nascono nel cuore di chi ci vede, diceva Paolo VI (Evangelii Nuntiandi n. 21). Una missione umile, libera da ogni complesso di superiorità dalla presunzione di insegnare la strada a chi già la percorre, povera di mezzi, ma ricca di affetto e di attenzione per i poveri, una missione che impara dai poveri quello stile che era quello di Gesù.
Qualche volta a noi missionari viene chiesto di mostrare come deve essere la missione qui nei nostri paesi d’origine, visto che anche qui si sente il bisogno di una nuova pastorale che sia missionaria. Abbiamo forse una risposta? Se ne abbiamo una, essa sta nel continuare a vivere il nuovo stile, che Francesco ha suggerito in Evangelii gaudium (per es. al n. 24). È un discorso che mette in crisi anche noi missionari che spesso siamo così sicuri delle nostre posizioni da diventare …quasi arroganti. Il cambiamento di paradigma della pastorale tocca ormai tutta la chiesa, quella di origine e le nuove chiese, i preti diocesani e i missionari. Siamo tutti di nuovo a scuola. Ma ce la faremo a cambiare? Io speriamo che me la cavo… ma ne va del futuro della missione.
p. Gabriele Ferrari s.x.
Lascia una recensione