Trento, 8 luglio – “Oggi la missione è chiamata a indossare il vestito dell’umiltà. Ciò comporta la capacità di ripensare le nostre strutture, ma anche i nostri atteggiamenti: nell’incontro con l’altro dobbiamo saperci abbassare. In fondo, è anche questo il messaggio di Gesù di Nazareth”. L’arcivescovo Lauro Tisi sintetizza così, ai microfoni di radio Trentino inBlu, la densa mattinata di analisi e riflessione che vede riuniti nell’aula magna del Seminario di Trento i missionari trentini che operano in Africa, America e Asia. Sono una trentina quelli presenti, rientrati nei paesi di origine per un periodo di riposo. Tra di loro anche quattro ex direttori del Centro missionario di Trento, successori di mons. Giacomo Dompieri, che nel 1927 diede vita a questa longeva esperienza a servizio della Chiesa di Trento: da don Valentino Felicetti (1970-1980) a don Girolamo Job (1980-1993), da don Carlo Speccher (2004-2009) fino all’attuale direttore don Beppino Caldera (dal 2009). Ma ci sono anche animatori dei gruppi missionari che operano nelle diverse zone pastorali, parroci, giovani dell’esperienza missionaria estiva (il 20 luglio prossimo partiranno i giovani e le giovani che si sono preparati a quest’avventura nel corso dei mesi invernali), collaboratori e amici del Centro missionario di Trento.
La giornata si apre con una videoproiezione che ripercorre i momenti salienti dei novant’anni di vita del Centro missionario diocesano. Oggi questa significativa realtà della Chiesa trentina si è aperta anche alle nuove situazioni che interpellano la società trentina, come la presenza degli immigrati, già alle seconde e alle terze generazioni, schiacciate tra il mondo di provenienza dei genitori e quello di accoglienza, che rivendicano una cittadinanza ancora non facilmente riconosciuta, e negli ultimi anni alle nuove migrazioni. “La missione fa 90”, come recita il titolo di questo tradizionale appuntamento estivo, e si interroga sul suo futuro, attraverso il confronto tra la realtà trentina e la realtà che vivono i missionari nelle diverse zone del mondo dove si trovano ad operare.
Prima dei lavori di gruppo, tocca a mons. Giuseppe Filippi, vescovo della diocesi di Kotido nella regione del Karamoja (Nord Uganda), delineare quali saranno le piste per il futuro, “per i prossimi 90 anni”, scherza don Beppino Caldera prima di cedergli la parola. “Non sono un profeta!”, risponde mons. Filippi stando al gioco. Ma poi si fa serio. Siamo di fronte a una nuova fase storica, dice, che chiede la capacità di cambiare e un linguaggio nuovo. Il bisogno di salvezza è sempre presente nell’umanità: occorre partire da questo bisogno, mettendosi in ascolto. Come il Filippo del brano degli Atti degli Apostoli che ha guidato la preghiera iniziale, occorre alzarsi, mettersi in cammino, accostare e ascoltare l’inquietudine che, ci ricorda Papa Francesco, è nel cuore di ogni uomo. “La missione inizia prendendo coscienza di questo bisogno”, osserva mons. Filippi. “La missione, come l’abbiamo conosciuta, ha avuto successo: le chiese locali sono cresciute, sono diventate adulte. La Chiesa è stata piantata, la plantatio ecclesiae del Vaticano II è avvenuta. La buona novella non cambia. Ma dobbiamo trovare una maniera nuova di portare Cristo”.
Se è probabile che la Chiesa come struttura non abbia futuro, ha detto poi citando una recente statistica sulla partecipazione alla vita liturgica in Francia, conforta però il fatto che i preti siano molto stimati, “nonostante lo scandalo pedofilia”: significa che “quando sappiamo ascoltare, quando sappiamo farci prossimo, senza giudicare, possiamo aiutare le persone a trovare risposte”. Una Chiesa di uomini e donne che sanno farsi compagni e compagne di strada, che sanno ascoltare, che sanno camminare insieme verso la salvezza: ecco la prospettiva. Per dirla con le parole di Papa Francesco: una Chiesa sorella e madre, che ascolta e non fa proselitismo, ma testimonia la gioia dell’essere cristiani. La missione è sempre attuale, ma cambia il metodo. Serve linguaggio nuovo, ripete mons. Filippi: “Come spezzare questo pane nelle nostre comunità, chiese, case?”. Guardando alla sua esperienza in Uganda, mons. Filippi suggerisce due piste. La prima, l’ecumenismo. “In passato, la missione era fatta ‘contro’. E’ vero, essere contro aiuta a formarsi un’identità. Ma abbiamo un fondamento comune – e la storia dei martiri in Uganda ce lo dice in maniera forte – e dobbiamo riscoprirlo”. Papa Francesco fa l’esempio del fiume: nella corrente c’è chi è più verso la riva destra, chi invece più verso la sinistra; ma si è insieme. La seconda indicazione, l’umiltà. “Il trionfalismo a volte fa bene, a volte fa male. La Chiesa cattolica ha avuto successo in Uganda, ha le scuole migliori, i migliori ospedali, parla alla pari con il governo”. Ma c’è un ma. “Ciò può creare complessi di inferiorità nei musulmani e questo genera rancore, rabbia. Nella cultura locale, se umili l’altro, questi risponde con la rabbia. L’umiltà facilita il dialogo”. Indossare il vestito dell’umiltà, sapendo che la soluzione che oggi intravediamo, “domani potrebbe non andare bene”. Per questo il missionario è oggi più che mai “colui che non si fossilizza”: mai seduto, “ogni giorno impara come proclamare l’amore di Cristo incontrando le persone”.
Lascia una recensione