Era uno dei cardini. Si potrebbe dire dei punti programmatici della 65ª edizione del Trento Film Festival. L’attenzione ai temi ambientali, ai cambiamenti climatici. Sensibilità rispettata perché la Genziana d’oro ha rispecchiato in pieno l’interesse della manifestazione verso questi temi di estrema attualità. Un riguardo dimostrato non solo in diversi documentari delle varie rassegne, una decina, ma anche nei tanti appuntamenti proposti.
Il miglior film è quindi “Samuel in the clouds” (Samuel tra le nuvole), del belga Pieter Van Eecke che per diversi anni ha lavorato in America Latina. Ed infatti il suo doc è ambientato in Bolivia. E’ la storia dell’anziano gestore, Samuel, appunto , del rifugio probabilmente più alto al mondo, a 5300 metri di quota, sul monte Chacaltaya. Dove una volta c’era un ghiacciaio, che ora non c’è praticamente più, risultato del surriscaldamento terrestre, ma pure si sciava. Ed infatti la stazione era il punto di arrivo e di comando di una seggiovia i cui comandi sono ora solo “ferro vecchio”. Un rifugio a picco sul vuoto da dove il gestore, il cui padre faceva lo stesso mestiere e proprio lì è morto, scende regolarmente in città, perlopiù a piedi, mettendoci quattro interminabili ore. E dove arrivano i turisti sfibrati dall’altitudine. Immagini intense, anche di estrema bellezza, particolarmente le sequenze che riprendono un gruppo musicale-folklorico dai costumi sgargianti che cerca di “scalare” il nevaio dopo aver abbandonato la corriera che non ce la fa più a salire i ripidi tornanti, il film mette in evidenza la caparbietà di Samuel, non solo nel non voler mollare, ma anche nel credere che un giorno il ghiacciaio possa tornare quello di una volta.
Il Premio della giuria – composta dal fotografo inglese Timothy Allen, dal giornalista francese Gilles Chappaz, da Fridrik Thor Fridriksson, islandese, regista, dall’editor Anastasia Plazzotta e da Andrea Segre, autore di tanti doc e di “Io sono Li” – è andato a “Gulistan, land of roses” della regista di origini curde Zayne Akyol. Protagoniste le guerrigliere del Pkk. Un inno alla voglia di libertà di un popolo frammentato tra Turchia, Irak, Iran, Siria e Armenia che da decenni combatte per la propria autonomia e unità. Ma, soprattutto, un omaggio a queste donne indomite e straordinarie.
Detto che il palmares, che peccato, non ha preso in considerazione “Those who remain” della libanese Eliane Raheb, con protagonista un anziano contadino che vive in un villaggio ai confini con la Siria, ma neanche “Santoalla”, thriller mozzafiato ambientato nella Galizia spagnola, miglior corto è stato ritenuto “The botanist” del canadese Maxime Lacoste-Lebuis che racconta la storia di Raimberdi, anziano botanico e insegnante tagiko anche se ben altra considerazione avrebbe meritata il poetico e commovente “L’immense retour (romance)” della francese Manon Coubia.
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