Che cosa significa educare oggi? A chi spetta la responsabilità di educare? Intorno a questi interrogativi verte il dialogo che sabato 8 aprile (Aula Magna del Palazzo dell'Istruzione, ore 17.30) va al cuore del tema dell'ottava edizione di Educa, il festival dell'educazione promosso dal 7 al 9 aprile a Rovereto da Provincia autonoma di Trento, Università di Trento, Comune di Rovereto e organizzato da Con.Solida, in collaborazione con Cooperazione Trentina, Fondazione Bruno Kessler, Fondazione Franco Demarchi, Iprase, Casse Rurali Trentine. Protagonisti l'economista esperto di società civile Stefano Zamagni (Università di Bologna), il giornalista Piero Sansonetti (direttore del quotidiano Il Dubbio), il pedagogista Piergiorgio Reggio (Università Cattolica di Milano e presidente della Fondazione Demarchi) e il sociologo Franco Garelli (Università di Torino).
Prof. Garelli, a “Educa” risponderà alla domanda: “Chi educa i giovani?”. La settimana scorsa su queste colonne mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, ci diceva che i giovani sono educati dai media e dagli amici. E' d'accordo?
No. Con tutto il rispetto per Bettazzi, mi sembrano affermazioni troppo perentorie. Le famiglie e la scuola educano, non è che siano evaporate. Certo, la situazione è più complessa rispetto al passato di una società più unitaria di quella attuale nei suoi presupposti culturali, i media hanno molta più rilevanza nel fornire gli orientamenti di fondo, ma non è che le tradizionali agenzie siano scomparse.
Dove sta la difficoltà?
La difficoltà delle istituzioni tradizionali è quella di capire come essere propositive nella società plurale. Una parte dei genitori presta più cura che educazione, si dà a un attivismo esasperato, segue i propri figli, ma in modo improprio. E lo stesso la scuola: in alcuni casi ci sono proposte interessanti, in altri prevale una proposta neutra.
Per capirci, quando parla di “giovani”, a che fascia di età si riferisce?
All'adolescenza e agli anni successivi, in cui c'è una formazione intensiva e l'orientamento di fondo dei propri valori. Parlo dei millennials.
Quelli che sono stati chiamati di volta in volta “bamboccioni” (Padoa Schioppa dixit), “choosy” (altro ministro, Elisa Fornero), “sfigati” (dal vice minisstro Michel Martone). Scelga Lei tre aggettivi.
Né sdraiati né nichilisti. Sono giovani riflessivi, disorientati (perché vivono tra molteplici opportunità), con troppe attese (rispetto alle possibilità reali), intriganti. Non possiamo dire che sono senza valori e senza ideali.
Sono giovani che di fronte a una proposta forte rispondono positivamente, che vogliono vivere – lo ha detto Papa Francesco – esperienze intense. Il sociologo conferma?
Assolutamente sì. Vale sia per i grandi eventi sia per i piccoli eventi della vita quotidiana. I giovani sono cercatori di sensazioni, ma anche alla ricerca di ideali, di testimonianze di vita, attenti a ciò che le persone attorno a loro rappresentano e dicono. Questa è una generazione che è alla ricerca di ragioni per la vita. Sono più attenti al vissuto che a ciò che viene dichiarato. Restano catturati da esperienze coinvolgenti e da chi spende la vita per loro, da chi li rispetta, da chi sa comprenderli e dà loro fiducia. E' vero che non hanno la capacità di tenere la tensione verso gli ideali per troppo tempo, perché vivono in un mondo fluttuante, ma questo aspetto di fondo c'è.
Una vivace domanda di senso la rileva nel suo libro “Piccoli atei crescono”. Come si pongono questi giovani rispetto al fatto religioso?
I giovani hanno bisogno di vivere esperienze autentiche. Si allontanano da una religiosità freezer, formale, da riti che non evocano passione, che non coinvolgono emotivamente. Sono alla ricerca di esperienze coinvolgenti e di cammini che parlino alla loro vita.
E li trovano?
Non sempre, è questo il problema! E allora possono avere un rapporto altalenante con gli ambienti religiosi e ecclesiali ed esprimere una domanda di senso che si rivolge altrove, in risposta a un bisogno soggettivo di senso nella vita quotidiana e a una ricerca di appartenenza che riempia la loro esistenza.
E' un'appartenenza che si traduce anche in impegno nella politica?
Questo meno. C'è uno scollamento rispetto all'istanza della politica, che è vista distante.
E però…
Come emerge chiaramente dalla mia ricerca, c'è un 20-25 per cento di giovani che – a livello personale, di coppia o di gruppo di amici – non si uniforma ai criteri dell'apparenza o del consumismo, ma si orienta verso canali alternativi di consumo, praticando lo scambio dei beni e dei prodotti, facendo vacanze essenziali, vivendo in armonia con la natura. Non è solo la generazione equosolidale, non sono giovani impegnati anche per il Terzo mondo: stanno dentro questa società, ma ne prendono le distanze vivendo uno stile di vita più armonico, più essenziale. E' un dato molto interessante.
Il problema qual è?
Il problema è che questi valori li giocano per sé. Non fanno diventare un punto di riferimento collettivo questo modello di vita, per provocare un cambio dentro la società. E' una minoranza consistente che non è refrattaria alla politica, ma vive a livello personale più che pubblico.
Prof. Garelli, questo ci riporta ai temi di “Educa”, alla priorità educativa. Quando possiamo dire che una comunità sa educare se stessa?
Quando si lamenta meno dell'emergenza educativa e si attiva di più. Il paradosso è che quanto più monta la denuncia sul fatto che i giovani non sono educati, che la scuola naufraga e così via, tanto più diminuisce la quota di persone che si impegnano effettivamente a favore dei giovani, creando ambienti favorevoli al loro sviluppo. Posso dirlo con una battuta?
Si accomodi.
Quando questi temi arrivano a “Porta a porta” (la trasmissione tv di RaiUno, ndr), vuol dire che siamo alla fine, perché c'è molta più gente che dibatte, che gente che si tira su le maniche.
Cosa vuol dire rimboccarsi le maniche?
Vuol dire pensare alla responsabilità educativa che si ha nella scuola, nella famiglia, nel mondo del lavoro, nell'associazionismo. Pensiamo a quanto potere hanno gli adulti dal punto di vista educativo.
Il rischio qual è?
Il rischio è che in una società complessa e pluralistica ci si limiti a trasmettere le competenze, a cercare di costruire abilità, dribblando la questione degli ideali, dei valori sottesi a un certo tipo di rapporto educativo, che fa sì che si costruiscano le abitudini del cuore, gli atteggiamenti di fondo, una certa passione per la vita, un senso di appartenenza che aiuta a orientarsi nella realtà.
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