Sembra ormai una scelta caratterizzante dello Studio Ghibli quella di uscire in sala con i propri film in forma di evento limitato a due o tre giornate. Quella che si pensava una strategia destinata alla riedizione di film del passato e alla promozione dell’homevideo, si rivela piuttosto un’edizione esclusiva per conoscitori ed amanti dell’animazione di qualità, qual’è quella dello studio giapponese fondato da Hayao Myazaki e Isao Takahata.
È successo anche con La tartaruga rossa, Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes, in sala lunedì, martedì e mercoledì scorsi. Un film che costituisce un evento anche perché si tratta di un film europeo voluto e sostenuto dallo studio giapponese: un incontro di affinità elettive tra occidente ed oriente.
Il film infatti è stato scritto e diretto da un artista olandese trapiantato a Londra, Michaël Dudok de Wit (1953), autore fin qui di cortometraggi raffinati come Father and Daughter o The Monk and the Fish che è possibile vedere in internet. Cifra grafica, una fluidità granulosa del disegno a mano che è allo stesso tempo stilizzato e realistico; una chiave cromatica più spenta rispetto ai colori dei giapponesi, intonata ad un monocromo sabbia che si innalza nella luminosità trasparente degli azzurri marini e del verde, e limita l’utilizzo del rosso al contrasto strutturale.
Altra cifra dell’autore è l’assenza del codice verbale, mancanza facilmente accettabile nei corti, una vera sfida per un lungometraggio di 80 minuti, caratterizzato inoltre da un minor numero di inquadrature rispetto alla norma – il che imprime al racconto un ritmo più lento e descrittivo. Eppure il tempo scivola via senza quasi accorgersene.
Insieme alla ‘natura’, il ‘tempo’ è protagonista in quest’opera che racconta l’approdo e la permanenza di un naufrago su di un atollo perso nell’oceano. L’annullamento del tempo, così come lo conosciamo in Occidente: alla linearità cronologica si sostituisce la sospensione in una condizione che può essere ‘sempre’; ciclica ma anche circolare. Un tempo che rifluisce nel mito.
Ed è un mito nuovo e antico quello che Dudok de Wit mette in scena: l’uomo viene obbligato a rimanere sull’isola da una forza dei fondali marini che ad ogni tentativo gli distrugge la zattera, una forza che si rivela come una grande tartaruga rossa, di cui lui si vendicherà appena lei sarà sulla spiaggia, per poi pentirsene e prendersene cura, e allora la corazza si spacca e ne esce una donna, e l’uomo non sentirà più il bisogno di fuggire. La vita a due riprende nella sua ciclicità naturale che porterà un figlio e quel figlio divenuto grande abbandonerà i genitori; come in un nuovo eden, che conosce pericoli e disastri immani, ma è anche in grado di farvi fronte con l’aiuto della stessa natura. E quando l’uomo infine morirà, lei recupererà la corazza che aveva affidato alle onde e tornerà tartaruga al mare…
Ricorda un po’ il mito della selkie, la donna-foca irlandese ripreso di recente da un altro film di animazione europeo, La canzone del mare (Vita Trentina 30/10/2016). L’esperienza cinematografica de La tartaruga rossa però è più profonda, al limite dell’insondabile, per quanto anche semplice al limite del semplicistico. E si rivolge ad un pubblico adulto, capace di immergersi in questa sospensione temporale e verbale e di lasciar affiorare il bisogno estremo di riconciliazione amorosa con la natura dell’uomo contemporaneo.
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Michaël Dudok de Wit
Animazione
Francia/Belgio/Giappone, 2017
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