Unico vescovo italiano vivente testimone del Concilio, instancabile conferenziere a servizio della Chiesa di Papa Francesco, dei poveri, della non violenza attiva, del dialogo
Unico vescovo italiano vivente testimone della stagione del Concilio Vaticano II, mons. Luigi Bettazzi, classe 1923, vescovo emerito di Ivrea e presidente del Centro studi di Pax Christi, il movimento per la pace di cui è stato presidente internazionale, oggi vive “in treno”, come ha detto scherzosamente (ma non troppo) ai seminaristi trentini, con i quali ha fatto colazione all'indomani della conferenza tenuta all'Oratorio di Gardolo, la sera di martedì 28 marzo. Il tempo di bere un caffè, di salutare i giovani nel refettorio del Seminario (“Fate i bravi, se potete”, li apostrofa riecheggiando le parole di san Filippo Neri), ed eccolo negli studi di radio Trentino inBlu.
“Una Chiesa povera, per i poveri”: così si è presentato Papa Francesco. “La Chiesa dei poveri” è anche il titolo di un suo libro.
Furono i vescovi dell'America latina a porre nel Concilio l'accento sui poveri, che sono la maggioranza dell'umanità. La Chiesa, dicevano, deve essere chiamata ad essere la voce di chi non ha voce. Paolo VI temeva che la faccenda finisse in politica e fece lui un'enciclica, la Populorum progressio: una delle encicliche più forti, tant'è vero che dopo 20 anni Giovanni Paolo II volle commemorarla con la Sollicitudo rei socialis e dopo 40 anni Benedetto XVI ha fatto lo stesso con la Caritas in veritate.
Fu per quello che si arrivò al “Patto delle catacombe”.
Alcuni vescovi si riunirono nelle catacombe di Domitilla – c'ero anch'io, capitato un po' per caso – e si misero d'accordo su un documento, preparato dai vescovi del Belgio, nel quale si diceva, sostanzialmente: cominciamo noi vescovi a rinunciare ai grandi appellativi, alle grandi sedi, stiamo vicini ai lavoratori, ai poveri, alle persone più in difficoltà, affidiamo la finanza ai laici.
Firmaste in 42…
E ci prendemmo l'impegno a far firmare anche altri, così che a Paolo VI furono portate 500 firme.
Poi arrivò il Sessantotto e creò qualche preoccupazione.
Si rallentò l'azione del Concilio, ognuno fece quello che poteva, finché non è arrivato un Papa dall'America latina, che già nella sua diocesi di Buenos Aires, in Argentina, si curava molto dei poveri. E subito ci ha ricordato che la Chiesa per essere veramente Chiesa deve essere Chiesa dei poveri. Papa Francesco realizza l'intuizione che si era avuta nel Concilio.
Nel ricordarne l'anniversario, si è molto dibattuto su continuità e discontinuità del Vaticano II.
C'era chi riteneva la tradizione immutabile. Io dico sempre che se sono ancora vivo è perché sono 93 anni che cambio. La Chiesa, che è un ente vivo, deve restare la stessa, sviluppandosi. Come diceva Papa Giovanni, non è la verità che cambia: siamo noi che cambiamo, comprendendola e vivendola meglio.
Continuità in cosa?
Continuità dogmatica: il Concilio non ha dato nessuno verità nuova.
Dove ha marcato la discontinuità rispetto al passato?
La discontinuità è pastorale: non più imporre verità dall'alto, ma partire dalla gente per portarla ad accogliere la verità. La Chiesa non è più un esercito, come si diceva nel canto, ma è la comunione del popolo di Dio, servito dalla gerarchia e aperto a tutto il mondo.
Non più la Chiesa da una parte, e il mondo dall'altra.
Quel brav'uomo di Papa Benedetto, che ha detto delle cose furbe, ha spiegato che “Ite, missa est” non significa tanto “La messa è finita”, ma è un invito alla missione, a portare nel mondo lo spirito della verità e della pace.
Un altro titolo suo: “Viva il Papa, viva il popolo di Dio!”.
Il Concilio Vaticano I disse: il Papa è infallibile, perché esprime l'infallibilità della Chiesa. Ma è la Chiesa che è infallibile e il Papa lo è in quanto esprime l'unità della Chiesa, la sinodalità, la Chiesa comunione. Papa Francesco per fare il Sinodo sulla famiglia, prima ha fatto un pre-sinodo con i laici. Ecco perché diciamo “Viva il Papa”, ma diciamo anche “Viva il popolo di Dio”, perché il Papa esprime la fede del popolo di Dio.
Che è fatto di consacrati e di laici. Lei si è sempre definito “vescovo e laico”.
Sì, perché è il battesimo che ci inserisce in Gesù Cristo. Il ministero dei consacrati è un servizio, non è per dominare, ma per aiutare il popolo di Dio ad essere profetico e sacerdotale. Siamo chiamati ad essere lievito: lo ricordava Papa Francesco a Milano sabato scorso. Non si mette mezzo chilo di lievito in cento chili di pasta. Il lievito è quello che si perde nella pasta. E perdendosi la fa lievitare.
Proprio a Milano il Papa ha definito la Evangelii nuntiandi il più grande documento pastorale del tempo moderno. Perché fu così decisiva?
La scelta di Papa Giovanni fu di un Concilio non dogmatico, ma pastorale: un Concilio che parte dalla gente, che si rende conto di come la gente pensa e cosa aspira, e la aiuta ad andare verso la verità. La Evangelii nuntiandi parte dal popolo di Dio. Dice la gioia che il Vangelo dà.
Oggi il mondo non vive in pace. Come costruire la pace?
Come cristiani non possiamo accettare la guerra. Il fatto è che abbiamo organizzato il mondo per i nostri interessi. E per difenderli scateniamo guerre, rinunciando alla diplomazia. Guardiamo quello che abbiamo combinato in Medio Oriente o in Africa. Solo adesso cominciamo a chiederci per quali ragioni arrivano da noi i migranti. Ma non abbiamo fatto niente per far sì che non debbano migrare. Anzi, abbiamo venduto armi e fomentato guerre.
Il Papa si è pronunciato in più occasioni contro il commercio delle armi.
Se si producono armi, poi si finisce per adoperarle. Ci sono interessi enormi. Vediamo come Pax Christi la fatica che si fa a chiedere ai governi di controllare la produzione e il commercio delle armi.
Papa Francesco, nell'ultima Giornata mondiale della pace, ha invitato alla non violenza attiva.
La non violenza attiva e creatrice deve trovare il modo di evitare che le tensioni diventino così forti da arrivare alla guerra. Bisognerebbe dare all'Onu la forza, anche economica, di imporre delle regole, dotarla di una polizia; che però non ci sarà mai, se cinque nazioni, per aver vinto 70 anni fa una guerra, hanno il diritto di veto. Dobbiamo lavorare per questo risultato.
“Una Chiesa per tutti”, è un altro suo libro. Anche per i giovani? Spesso fanno fatica a sentire la Chiesa e la Chiesa fa fatica ad ascoltarli.
Un tempo dicevo: i giovani sono educati dalla famiglia, dalla scuola e dalla parrocchia. Adesso sono educati dal telefonino e dagli amici.
E dunque?
Non siamo più in dialogo, abbiamo al più la conoscenza di quello che avviene. I giovani non sono più capaci di pensare e di scegliere. E forse anche noi adulti non pensiamo e non scegliamo. Andiamo secondo i nostri interessi. Credo che sia importante portare i giovani (ma vale anche per noi adulti) a sentire il senso della nostra responsabilità. Perché il mondo va secondo le responsabilità dei singoli: o sono orientate verso l'attenzione all'altro… se no, se siamo chiusi nei nostri interessi, l'altro che ci disturba lo facciamo fuori; sarà la moglie, sarà la fidanzata, saranno gli amici… E' un'educazione che dobbiamo fare a noi stessi e agli altri: sentire il senso della responsabilità personale. Diciamo ai giovani: il mondo di domani dovete cominciare a costruirlo voi, costruendo voi stessi.
Mons. Bettazzi, il suo bel volto da novantenne è segnato da qualche ruga. Talvolta abbiamo visto – e vediamo – rughe nella Chiesa. Come andare oltre le rughe?
Le rughe sono quelle dell'età, mia e anche della Chiesa. Una Chiesa che fino al secolo scorso, per mille anni ha avuto il Papa come re. Una Chiesa centralistica, dominante.
Di Papa Francesco cosa apprezza in particolare?
Due grandi intuizioni. La prima, la Chiesa dei poveri: in un mondo dominato dai ricchi, la Chiesa deve farsi voce dei poveri, perché siano al centro della politica mondiale. La seconda, la sinodalità, che significa ascolto, comunione. La Chiesa dei poveri e la sinodalità sono due grandi indirizzi per il rinnovamento della Chiesa, perché sia evangelica come Gesù la voleva.
a cura di Augusto Goio e Diego Andreatta
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