Il rugby femminile contro gli stereotipi di genere

“Il rugby è l'unico sport di contatto in cui vigono le stesse regole sia per gli uomini che per le donne: stesso regolamento, stesse dimensioni del campo, stesso equipaggiamento e uguale voglia di divertirsi. Questo sport permette di superare gli stereotipi tradizionali legati al femminile: timidezza, passività, sottomissione e grazia”. È la premessa con la quale Luca Della Sala, presidente dell'A.S.D. Rugby Trento, ha introdotto il convegno “Stereotipi di genere nello sport. A che gioco giochiamo?” tenutosi la settimana scorsa nel capoluogo.

Organizzato dalla società di via Fersina, l'incontro ha rappresentato il punto conclusivo del percorso progettuale “imMISCHIAmoci”, realizzato in collaborazione con l'Associazione Culturale Te@, il Centro Sportivo Italiano e il C.U.S. Trento, braccio operativo di UNI.Sport.

“Il rugby è una famiglia nella quale i genitori diventano parte integrante delle società, spingendo i figli non solo al gioco ma anche al rispetto degli avversari”, ha sottolineato Della Sala, massimo dirigente aquilotto da un biennio. “Già nel 2010/2011, dopo aver visto una ragazza smettere a 14 anni perché non esisteva una squadra femminile, mi ero ripromesso di far crescere il movimento, includendo le adolescenti. Oggi, al contrario, ci capita di non avere maglie sufficienti per farle giocare tutte. Abbiamo circa 35 ragazze, di cui cinque partecipano al campionato di Serie A con il club trevigiano del Villorba”.

Duecentocinquanta, di 12 classi superiori, sono stati i giovani coinvolti nel progetto “imMISCHIAmoci”, finanziato dall'Assessorato provinciale alle pari opportunità. Gli obiettivi erano cinque: il riconoscimento e superamento dei principali stereotipi di genere all'interno del mondo sportivo; l'acquisizione di un vocabolario comune che permettesse a tutti di parlare la stessa lingua; la creazione di un contesto educativo-istruttivo e ludico sempre più ricettivo; la generazione di protagonisti attivi nella scena delle pari opportunità e l'acquisizione di strumenti e metodologie per educare efficacemente sia al genere sia alle pari opportunità stesse.

“Lo sport è narrato al maschile, con parole come individualismo, muscoli, aggressività, competizione, forza, prestanza fisica o virilità”, ha affermato Chiara Paoli, pilone del Trento e presidente dell'Associazione Culturale Te@. “Il rugby, invece, è una disciplina di empowerment, che aiuta la donna ad aumentare l'autostima, acquisire la consapevolezza di sé ed il controllo sulle proprie decisioni e azioni in ogni ambito. Per questo occorre aumentare la partecipazione giovanile, dare visibilità alla nostra squadra, accrescere la percezione positiva della corporeità femminile e creare dibattito sia all'interno delle società che della comunità sui temi legati alla formazione degli stereotipi di genere”.

Le basi comunque ci sono, se è vero che il numero delle atlete italiane tesserate (oltre 7.500, quasi il 70% delle quali sotto i 16 anni) è in crescita e che il rugby a 7 femminile ha debuttato ai Giochi Olimpici di Rio 2016, dove il 45% dei partecipanti erano donne.

“Se possiamo parlare del futuro del movimento è perché finalmente c'è una filiera da seguire e molte cose sono cambiate dal 1978, anno di nascita del rugby femminile nel nostro Paese”, ha spiegato la responsabile federale Maria Cristina Tonna. “A dare la svolta al movimento è stata soprattutto la Coppa Italia a 7, nata nel 2005 insieme al Settore Femminile FIR e che, nella stagione 2015/2016, ha superato le 100 squadre iscritte, divise in 12 gironi regionali. Una delle sfide del prossimo quadriennio sarà far percepire ancora di più che il rugby è un gioco per tutti e dunque per tutte”.

“Gioco” fino a un certo punto, peraltro. “Per l'ex mediano d'apertura inglese Jonny Wilkinson, il rugby è la vita in miniatura. Non uno sport, non un lavoro, ma un modo di vivere. Con gli stessi valori in campo e nella vita quotidiana. Dove, come in una squadra a 7 o a 15, trovano spazio e ruolo diverse tipologie fisiche e personalità”, ha fatto presente la psicologa padovana Maria Giulia Panetta.

Nella vita quotidiana, tuttavia, il genere non è solo il vestito che ci mettiamo addosso, ma anche il vestito che il mondo ci mette addosso. “Da questo punto di vista, è rappresentativa una poesia dello psichiatra scozzese Ronald David Laing, tratta da 'Nodi', una sua opera del 1970”, ha detto Stefano Ciccone, presidente dell'associazione nazionale 'Maschile Plurale'. “Questa poesia recita: 'Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare a un un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco'. Anche all'uomo, insomma, viene impedito oggi di essere pienamente sé stesso”.

Sulla malintesa virilità si è soffermata pure Sara Barattin, mediano di mischia del Villorba e capitana della Nazionale azzurra che, dal 9 al 26 agosto prossimi in Irlanda, disputerà la Coppa del Mondo. “Tempo fa, partecipando al classico torneo dei bar con gli uomini, mi sono rotta un ginocchio”, ha raccontato in chiusura del convegno la miglior giocatrice del 'Sei Nazioni' per la quarta volta consecutiva. “I maschi non si sanno dosare, non accettano che le donne possano essere più brave. A me, che ho iniziato a 17 anni, hanno aiutato la ginnastica artistica e l'atletica praticate in precedenza, ma ad avere una marcia in più sono le ragazze che partono dal minirugby”.

Minirugby che è stato protagonista della mostra fotografica “Gioco a rugby perché…” abbinata al dibattito e curata da Anna Berloffa, con scatti di atlete e atleti del Trento, Prima Squadra e Under 18 comprese.

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