Nel solco di un anno

Arrivarono dal Libano il 29 febbraio 2016. Ora la ricerca di lavoro e un ulteriore inserimento

L'orto allora era quasi fiorito, poi si è riaddormentato sotto il ghiaccio della cascata di Sardagna. Ma ora dovrà fiorire di nuovo. Era il 29 febbraio, un lunedì sera, quando i profughi siriani del nostro “corridoio umanitario” sono arrivati finalmente a Trento, stanchi per il lungo volo dal Libano e disorientati dopo quattro anni di fuga dalla violenza della guerra.

Il mattino dopo, con i volontari dell'Operazione Colomba, della Fondazione Comunità Solidale per l'Arcidiocesi di Trento e del Cinformi per la Provincia, avevano scoperto la serenità e il calore di quella casa accogliente, ben diversa dalle tende del campo profughi di Tel Abbas. E poi quel giardino dove lasciar giocare i bambini e l'orto dove seminare qualcosa per altre stagioni.

“Adesso freddo, ma poi lavoriamo l'orto” ci assicurato in questa visita da “primo compleanno” (con tanto di torta al cocco) e colpisce – rispetto al solo “grazie” di un anno fa – questo lessico già sufficiente, appreso nelle lezioni d'italiano, previste ogni mattina dalla Provincia: la lingua resta la prima chiave d'accesso per potersi inserire.

Insieme a nonna Badheea, che mantiene la sua riconosciuta autorità matriarcale su tutti i 29 componenti del gruppo familiare, ripercorriamo questi dodici mesi di corridoio umanitario, da lei narrato con Mattia Civico nel libro presentato a livello nazionale. Le prime settimane per inserirsi nei locali di Villa San Nicolò, messa a disposizione dall'Arcidiocesi. Poi gli amici saliti per le nove settimane di campi estivi, tanti turni di volontari e gli scout a piantare le tende nel prato vicino. Quindi il ritorno alla scuola elementare e materna di Ravina, da dove anche oggi pomeriggio vediamo sbarcare in scuolabus i bambini ancora carichi di entusiasmo. Cosa vorresti fare da grande? chiede l'inviata di Avvenire, Lucia Bellaspiga, alla piccola Badhaa: “Vorrei fare la dottoressa di un grandissimo ospedale per le ragazze”. In Siria? “O anche in Italia”.

Un pochino italiano è il piccolo Habudi, nato a Trento quattro mesi fa e coccolato come una vera mascotte. “La presenza di tanti bambini ci ha favorito nel lavoro di comunità”, racconta l'operatore della Fondazione Mauro Pizzini, arrivato qui dopo 16 anni di “Bonomelli”. Ed il collega Nicola Bonelli, forte di buona conoscenza della lingua siriana, commena con gli adulti le notizie che arrivano dalle tv, via parabola. “Ci sono ancora troppi Stati presenti nel nostro Paese. Noi vorremmo sentire di più la voce dei nostri concittadini siriani”, commenta Abu Rabia, gentile portavoce degli altri papà. Il momento più bello di questi mesi? “Tutte le volte che posso incontrare altre persone e raccontare loro la verità sul nostro Paese e su quello che abbiamo vissuto”, la sua matura risposta.

Nelle giornate ora s'impone una nuova progettualità. Accanto ai corsi d'italiano ed ai controlli medici (alcuni profughi risentono dei postumi della guerra), si guarda anche al lavoro. D'estate alcune signore hanno svolto volontariato a Mandacarù, altri in altre realtà amiche. “In queste settimane abbiamo completato insieme a loro la stesura dei curricula da presentare a possibili datori di lavoro”, c'informa Victoria Sale, un'altra operatrice.

Riconoscenti per questo solco ospitale durato 12 mesi, ora i profughi siriani scrutano con qualche timore al futuro. Forse è soltanto la sacrosanta preoccupazione per ogni cambiamento, la stessa che provarono alla richiesta di lasciare il Libano. Dopo quest'accoglienza di gruppo a San Nicolò, necessaria ma non definitiva, si apre una fase nuova: per favorire un inserimento nel tessuto trentino è preferibile pensare ad una destinazione in gruppi più ristretti, accolti da due o tre diverse realtà sul territorio. Dove gli sbocchi lavorativi forse saranno favoriti e anche una vita familiare, scolastica e comunitaria all'insegna di un nuovo inizio. Sempre con la nostalgia della Siria, certamente, ma con un futuro coltivato con le proprie mani.

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