Amici e estimatori di padre Mario Vit, il gesuita deceduto nel dicembre del 2013 ad ottant'anni, che ha operato a Trento come responsabile per la pastorale degli studenti universitari dal 1968 e nella prima fase del post Concilio, sono convenuti, nei giorni scorsi, a Villa Sant'Ignazio, per la presentazione di un libro di memorie sulla sua vita. Scritto da Caterina Dolcher, avvocatessa triestina e collaboratrice del religioso, il volume di 654 pagine (edito alla fine del 2016 da Lint Editoriale srl) propone le tappe fondamentali della vita di Vit e del suo percorso religioso. Porta il titolo “Todà (Grazie) – Memorie condivise di Mario Vit uomo e gesuita”.
Un lungo capitolo è riservato all'esperienza a Trento dove tra l'altro ha dato vita alla comunità di San Francesco Saverio, attiva tutt'ora seppure costretta a ricercare nuove location per gli incontri liturgici e ad affidarsi, dopo la partenza di Vit nel 1975, dapprima ad un suo confratello Beniamino Guidotti e poi al cappuccino Giorgio Butterini.
L'incontro, coordinato dal giornalista ed ex redattore di Vita Trentina Fulvio Gardumi – che, all'inizio della propria carriera, fu uno dei primi a far conoscenza con il gesuita che aveva trovato alloggio in via Torre Vanga, dove aveva sede pure la redazione del settimanale diocesano – ha rappresentato l'occasione per una riflessione a più voci su uno dei più controversi capitoli della storia trentina. Contributi per una lettura del lavoro portato avanti da Vit, fra mille difficoltà per i cambiamenti “epocali” in essere come li ha definiti Gardumi, nella loro correlazione con la sfera religiosa, civile e culturale, sono venuti oltre che dall'autrice, che ha raccolto per il volume più di 170 testimonianze, dal presidente della Cooperativa Villa S. Ignazio, Riccardo Barbi, dai due confratelli gesuiti Alberto Remondini e Livio Passalacqua, dal priore camaldolese dell'eremo di San Giorgio a Bardolino Gianni Dalpiaz, e dal senatore Marco Boato.
È stato approfondito uno spaccato di vicende umane per lo più inedite, talune dolorose ed intriganti, altre rasserenanti il clima vissuto dalla città in quegli anni che trovavano un momento di confronto e di dialogo nella Messa presso la chiesa di San Francesco Saverio, nei dibattiti con figure di primo piano del dopo Concilio (teologi e commentatori locali e nazionali), con i vertici della Chiesa locale (mons. Gottardi, Vielmetti, Rogger, Visintainer, Clauser, Franch fra le persone più citate) e nei trasferimenti per una condivisione dei progetti presso nuove comunità ecclesiali emergenti come quella di Bose e di don Dossetti in quello che era un ribollire di speranze, ma anche di frustrazioni nella frontiera del dissenso cattolico, della contraddizione e del conflitto politico, della contestazione universitaria e dei moti studenteschi. Trento città di uno dei primi controquaresimali, dei cortei e dei tafferugli, per dirla con Boato, ma mai teatro del terrorismo brigatista, tuttavia.
La lettura delle molte vicende citate permette a tante persone anche se non direttamente coinvolte nell'azione di Vit di riconoscersi in quello che a lungo è risultato un modello di vita e di relazioni umane, assai variegato. Accanto a volti noti, inoltre, emergono figure solo apparentemente anonime, dalla personalità fragile, degli strati sociali più deboli che popolavano i quartieri bassi della città, le quali trovavano conforto e sostegno concreto e vitale nell'operato del gesuita e della sua comunità.
È la bella “piazza cittadina” del sorriso, della comprensione reciproca, della solidarietà.
Mario Vit, nato a Portogruaro nel novembre 1933, primo di cinque fratelli, dopo gli studi ginnasiali e teologici, una volta ordinato sacerdote inizia la sua azione pastorale in Sicilia. Arriva a Trento dopo due esperienze che ne hanno forgiato il carattere nel Belice, zona terremotata, e a Firenze in occasione dell'alluvione del 1966. È coinvolto così in prima persona nella storia del suo tempo, protagonista nella ricerca di relazioni umane con un'attenzione particolare al disagio e alla sofferenza della gente provata in talune occasioni dalle tragedie per accadimenti naturali come il terremoto, anticipando il tempo della Chiesa di Papa Francesco delle periferie e degli scarti: giovani, anziani, e famiglie in difficoltà in particolare.
I suoi studi di psicologia, sociologia e teologia pastorale – annota Caterina Dolcher – gli facevano dire che “se Dio ha scelto la strada dell'incarnazione, è solo attraverso la faticosa lettura dei molteplici aspetti della realtà che possiamo identificare i segni della Sua presenza ed è solo attraverso la costruzione di mediazioni storiche che possiamo fare 'la Sua volontà'”.
Dopo Trento si trasferisce nel Friuli fra i terremotati e gli sfollati di Grado e i baraccati di Gemona, quindi a Gorizia nella parrocchia retta dai gesuiti. È poi a Padova responsabile dell'Antoniano, lo storico collegio studentesco in cui sono passate anche decine di allievi trentini, che con lui chiuderà definitivamente i battenti, nonostante i tentativi di rilancio e di riorganizzazione.
Trieste è l'ultima tappa del suo cammino al Centro culturale Veritas da dove continua a svolgere il suo ruolo di studioso dei fenomeni sociali all'Isig di Gorizia e con l'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, trasferendosi d'estate nelle Valli del Natisone sui confini con la Slovenia, comunità conosciute dopo il sisma e durante la ricostruzione.
Vita Trentina aveva dedicato un ampio reportage sui rapporti consolidati da Vit con la popolazione falcidiata dall'emigrazione di queste zone nell'ultima estate trascorsa dal religioso in quella che considerava la sua seconda patria o meglio “casa”, dove ha voluto essere sepolto in un piccolo cimitero frazionale in montagna al confine italo-sloveno guardando, per un'ultima volta, al confine come senso di vita.
In ogni destinazione ha dimostrato – è il commento condiviso a margine delle memorie – di saper adattare i suoi progetti e il suo messaggio alla sensibilità dei destinatari della sua opera, di chi lo ascoltava. Ha sempre incarnato le sue proposte nella storia del luogo.
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