Ad Arco il giudice antimafia Giancarlo Caselli ha parlato giovedì scorso davanti a 150 persone nella parrocchia dei Verbiti, riflettendo sul rapporto fra giustizia e perdono, fra rispetto della legalità e costruzione del bene comune
E' stato definito “il magistrato più scomodo d'Italia”, Giancarlo Caselli. Piemontese, classe 1939, ex magistrato e giudice antiterrorismo a Torino dal 1967 al 1986, poi per 7 anni a Palermo ai tempi del processo Andreotti, quindi di nuovo a Torino dopo due anni spesi a guidare il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria.
Giancarlo Caselli è arrivato giovedì scorso ad Arco nella sala dei Verbiti con l'inseparabile scorta: lo accompagna anche ora che è in pensione dal dicembre 2013, dopo essersi occupato anche di G8 e No Tav.
Invitato per il ciclo “Scrutare orizzonti” e introdotto da padre Gianfranco Maronese, sul tema “Giustizia e perdono, quale incontro?”, Caselli ha dato una lezione di passione civile, convincendo con le riflessioni maturate dentro “Libera” e “Gruppo Abele” ma anche nell'amicizia con alcuni sacerdoti fra i quali don Dante Clauser.
Dott. Caselli, prima di perdono, parliamo di giustizia, o meglio, di legalità…
Piano, spesso ragioniamo di giustizia e legalità come fossero sinonimi. Non è propriamente così. Sono cose simili, ma diverse. Legalità è l’osservanza della norma scritta, giustizia è qualcosa di più. Infatti, anche l’osservanza di tutte le norme scritte non basta ancora per arrivare alla giustizia, cioè per rendere inclusi gli esclusi, per rendere gli ultimi meno ultimi. Per passare dalla legalità alla giustizia ci vuole qualcosa di più: l’impegno quotidiano e costante di ciascuno di noi, affinchè a ogni persona sia riconosciuta la sua dignità, in particolare a chi è nel bisogno: anziani, malati, stranieri…
Nel Vangelo si parla di “fame e sete di giustizia”.
E' un'espressione straordinariamente forte e provocatoria. Vuol dire che senza giustizia si muore, non si vive. E’ una sfida ad andare oltre la legge scritta per puntare ad una realtà assai più significativa e importante. Che è appunto la giustizia.
Ma questa fame evangelica ha una traduzione in cifra laica nella nostra Costituzione: se prendiamo il capoverso dove sta scritto “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana…”, lì troviamo lo stesso obiettivo: il dovere di far crescere i diritti di ognuno, di eliminare le disuguaglianze.
Che idea di giustizia aveva quando a 26 anni ha scelto la magistratura…
Avevo ben chiaro che la Costituzione doveva rispondere a quest’idea fondante di giustizia. Purtroppo alcune parti importanti della Costituzione, rimaste sepolte in un cassetto, furono riscoperte solo a fine anni Sessanta: sono quelle che si propongono di trasformare in realtà concreta alcuni fondamentali diritti dei cittadini. Ad esempio, una reale indipendenza della magistratura, che possa svolgere una funzione non burocratica, ma utile per il bene comune. A Torino, anche Brigate Rosse e Prima Linea parlavano di giustizia…quali furono gli errori di quegli anni?
Parlavano di una giustizia proletaria, ma la perseguivano gambizzando gli avversari. Ma se in democrazia noi portiamo avanti anche le istanze più credibili impiegando sistematicamente la violenza, mettiamo in atto una negazione della giustizia e della democrazia. E i cittadini di Torino se ne sono accorti; hanno capito che il terrorismo è nemico di tutti, è scattato allora l’isolamento politico dei terroristi.
Lei come guardava a quei terroristi? riusciva a vedere in loro anche l’umanità?
Tante inchieste non mi consentivano di vedere l’uomo, però in virtù del rispetto e del principio di non colpevolezza quando andavo a interrogare un indagato gli davo la mano, riconoscendolo come persona, come mi aveva insegnato un mio anziano collega.
Lei giunse a Palermo subito dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino: che giustizia ha trovato?
Ho lasciato la presidenza della Corte d’Assise a Torino per andare con la mia famiglia a Palermo quando il Paese viveva una condizione molto grave: “E’ tutto finito”, aveva detto Antonino Caponnetto dopo le stragi, sembrava che la mafia avesse vinto. Ed ho trovato tante macerie a Palermo. Già nel 1982 – come aveva denunciato il gen. Dalla Chiesa, pochi giorni prima di essere massacrato – la rete mafiosa aveva raggiunto ormai le maggiori città italiane con le sue ramificazioni nell'edilizia, nel commercio, nella finanza, nel riciclaggio. Oggi questa rete, che è nel Dna della mafia, si è estesa anche a droga, traffico di essere umani, prostituzione, gioco d’azzardo: tutto denaro che viene ripulito e reinvestito in attività apparentemente normali a livello internazionale, passandoi paradisi fiscali.
Quindi l'allarme dei magistrati antimafia è attualissimo?
Che le mafie siano presenti nel Nord e nel centro del nostro Paese è una cosa che non può stupire: stanno minacciando fette di mercato e di economia, presentandosi con un volto nascosto, si parla di mafiosi dai colletti bianchi. Dobbiamo prenderne atto, finirla di delegare tutto alla magistratura. Gioire dei risultati ottenuti dalle forze dell'ordine, ma anche impegnarsi a conoscere meglio le situazioni, e fare la propria parte.
Qual è la dimensione della criminalità organizzata?
Tutte le mafie in Italia fanno girare 150 miliardi di euro all'anno. Ma ci sono altre due forme di illegalità collegate: l'evasione fiscale che totalizza 120 miliardi l'anno (il 30 per cento finisce all'estero), mentre la corruzione si stima in 60 miliardi all'anno. Un totale di 330 miliardi, una montagna di ricchezza che ci viene rapinata e impoverisce la nostra collettività. Se avessimo queste risorse per scuole, ospedali, case di riposo, la qualità di vita di tutti gli italiani sarebbe migliore. Ci sarebbe più giustizia sociale.
Veniamo al perdono, talvolta apostrofato come atteggiamento buonista e ingenuo. Come si concilia con la giustizia?
La categoria del perdono è diversa dalla giustizia terrena. Il perdono appartiene all'etica cattolica, alla Chiesa, ai canoni che scaturiscono dal Vangelo, non dalla legge del taglione. E' fare tutto quello che è possibile per ricomporre un tessuto sociale devastato dall'odio e dal conflitto. E' difficile la ricucitura di questa lacerazione, ma chi lavora in questa direzione – pur rischiando di essere frustrato – segue un orientamento vicino al Vangelo.
Magistrato e cristiano, quale relazione vede…
Il giudice deve trovare soluzioni specifiche a singoli casi. Per me competenza professionale e religione devono rimanere distinte, ma non separate. Anche dall'insegnamento religioso si traggono spunti per fare meglio il proprio lavoro. E' compito del magistrato darsi da fare anche per migliorare la realtà che sta dietro i reati, prevenirne altri. E puntare quindi a ricavare dal male il bene nell'interesse della collettività. La legge va sempre interpreata a servizio del popolo, delle sue esigenze.
Questo modo di pensare per il cristiano è importante perché lo spinge a uscire dalla sacrestie. A non rimanere perimetrato dentro i propri interessi individuali, senza cercare una proiezione che ci aiuti a capire meglio i problemi sociali. Si scoprirà infatti che ci sono anche peccati di omissione: non aver fatto quello che eravamo chiamati a fare.
E oggi cosa possiamo fare, noi cittadini?
Non delegare agli addetti ai lavori, ma sostenere chi s'impegna in prima linea, attraverso l'azione culturale dei gruppi organizzati. Penso a quanti operano sui terreni e con i beni confiscati alla mafia. Una forma concreta per ricavare il male dal bene, prevista da una legge varata dal Parlamento nel 1999 sulla spinta di un milione di firme raccolte proprio da singoli cittadini come voi.
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