Ci si interroga sul significato della scissione avvenuta nel PD e sulle conseguenze che potrà avere nella gestione della nostra crisi attuale. Confessiamo che è difficile capirci qualcosa, perché né quel che dicono gli scissionisti, né quel che si ribatte dai vertici del PD aiuta a chiarirci le idee.
Quel che per ora è certo è che gli scissionisti non accettavano più la leadership di Renzi e si erano convinti di essere perdenti in uno scontro interno. L’hanno di fatto ribadito più volte sino a sostenere che se il loro ex partito si liberasse dell’attuale segretario non avrebbero problemi a tornare a collaborare intensamente. Uno che ragiona fuori degli schemi del politichese si chiede perché allora non siano restati dentro a fare quella battaglia, ma evidentemente era questione ormai di incompatibilità caratteriali.
Sul versante opposto sembra che Renzi sia lesto a scendere sul terreno della personalizzazione dello scontro, polemizzando con D’Alema e tornando alle comparsate TV. È una strategia che non gli ha portato fortuna nella battaglia sul referendum costituzionale, ma non sembra avere imparato da quell’esperienza.
Il tifo dell’opinione pubblica in questa materia ci sembra scarso. Certo ogni contendente ha i suoi pasdaran da esibire, ma tutto finisce lì. L’impressione è che la gente veda questo dibattito come un regolamento di conti interno ad una elite politica e che non si senta coinvolta più di tanto: percepisce quanto sta succedendo come una questione “privata” da cui tenersi fuori. Del resto a volte è persino difficile convincersi di avere letto bene alcune dichiarazioni. Per esempio l’ex governatore dell’Emilia Romagna ha detto che gli pareva che tanti elettori si discostassero dal PD perché lo percepivano come “parte dell’establishment”. Detta da un uomo che è stato per decenni ai vertici del sistema di governo della sua regione, per altro sempre nelle mani più o meno della stessa filiera politica dal 1946 in poi, la frase è surreale: se non erano “establishment” lui e i suoi uomini davvero risulta difficile dare un significato a quella parola.
Ma lasciamo perdere. La questione di fondo al momento è come si potrà andare avanti per giungere in maniera ragionevole alla fine naturale della legislatura. Andare ad elezioni anticipate sembra sempre più problematico e sarebbe in ogni caso traumatico. Continuare con l’attuale governo non sarà una passeggiata visto che la formazione di nuovi gruppi parlamentari non lascia tranquilla la sua navigazione.
Ad aprile si deve approvare il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef), cioè si devono decidere le direzioni di marcia per la stabilizzazione della nostra finanza pubblica. Gestire questo passaggio in un clima di tutti contro tutti sarà una impresa quasi disperata. Le opposizioni naturalmente non faranno sconti, ma una maggioranza come quella attuale divisa fra cespugli centristi, PD in cerca di nuovo segretario, scissionisti obbligati ad accreditarsi con quelli che considerano espressione del loro bacino elettorale (CGIL, movimenti vari e quant’altro) come farà a non naufragare su qualche scoglio?
Questa è la vera incognita che sta davanti al paese. Aggiungiamoci che si sta esaurendo la luna di miele del riformismo italiano con il carisma di Renzi, che non riesce più a farsi percepire come l’uomo che forzerà l’immobilismo e il corporativismo del nostro sistema politico. Lo si vede da un certo raffreddamento del sostegno che aveva dal sistema dei media, anche se questo è stato molto severo nel giudizio che ha dato sulla scissione.
Insomma è un orizzonte confuso quello che abbiamo davanti. È vero che al momento molti ceti dirigenti si rifugiano nella antica convinzione che dopo tutto se la politica è in crisi questo apre buoni spazi all’amministrazione (cioè ai governi liberi da vincoli di maggioranza), ma va ricordato che in passato scelte di questo tipo hanno prodotto più cure palliative che soluzioni di problemi.
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