Parola chiave “permesso”. Riflessioni sull'educazione con Giuseppe Mari: “All'educatore spetta anche il compito di guidare il giovane nel riconoscimento del fine della propria libertà”
"Permesso", nella duplice valenza interrogativa, permeata di dolcezza, con cui si chiede di essere accolti, ponendosi in fiduciosa attesa, ed esclamativa, esprimente la forza di affermare con schiettezza ciò che è bene distinguendolo da ciò che non lo è. Si è aperta su questa suggestiva immagine la riflessione sulla prima delle tre parole – permesso, scusa, grazie – a cui è dedicato il ciclo di incontri sull'educazione promosso dal Collegio Arcivescovile, giunto alla settima edizione, caratterizzata dalla novità del coinvolgimento delle altre scuole cattoliche della diocesi (Sacra Famiglia, Sacro Cuore, Salesiani Trento, Salesiani Primiero) e con il patrocinio della Fidae, dell'Agesc e della Diocesi, svoltasi giovedì 9 febbraio nell'aula magna del Collegio a Trento. Parole amate da papa Francesco che le ha indicate a fondamento della vita famigliare, ma su di esse si fonda anche il processo educativo.
"Ogni generazione ha fatto i conti con il disagio giovanile, ciò che inquieta, però, è che condotte improprie come l'abuso di sostanze, alcol, comportamenti adrenalinici alla ricerca del piacere immediato, accomunate dall'essere autodistruttive, si sviluppino in un tempo in cui, mai come prima, l'accesso al sapere dovrebbe invece favorire percorsi progettuali positivi e la fioritura della vita", ha esordito Giuseppe Mari, professore ordinario di Pedagogia generale, sociale e interculturale all'Università Cattolica di Milano, approfondendo poi il rapporto tra la parola "permesso" e l'educazione in un incontro denso di contenuto e confronto con una platea attenta e partecipe.
Per molto tempo, l'educazione è stata associata al verbo educere, ma educare non è solo "tirar fuori", far emergere potenzialità e originalità dell'individuo: "Se puntiamo solo su questo aspetto, insistiamo sulla singolarità, assecondando il narcisismo. All'educatore spetta anche il compito di guidare, ossia far incontrare all'adolescente quello che non è già presente in lui, portandolo dentro un'identità condivisa, la cultura. Se teniamo a mente che essa ci precede, la riceviamo e operiamo creativamente su di essa – ha spiegato -, capiamo che il passaggio dall'avere come punto di riferimento solo noi stessi al decentramento è necessario e occorre diventare resilienti perché il mondo e la realtà esistono indipendentemente da noi e possono ostacolare la soddisfazione dei nostri desideri".
Le pratiche autodistruttive invece rivelano scarsa custodia di se stessi, fragilità, mancanza di stima: "Nei giovani manca il riconoscimento di qualcosa che è importante custodire, la nostra dignità: è la dignità a indirizzare le nostre scelte – ha proseguito il docente – ed è l'impegno nel conquistare qualcosa a renderci consapevoli di chi possiamo essere e del nostro valore". Compito degli educatori è perciò quello di sostenere i giovani nella fatica, guidarli a fare conquiste, a maturare la capacità di vivere positivamente anche il negativo e imparare a governare l'esigenza della soddisfazione immediata del bisogno.
L'educazione è connessa alla libertà, ma essere liberi non significa essere spontanei, né poter scegliere tra alternative, né autodeterminarmi come ha spiegato Mari sottolineando la discutibilità e incompletezza di tali concezioni: "La libertà è un mezzo: siamo liberi per deciderci per il meglio, diventare migliori, e poiché il fine è la mia dignità, sono libero quando sono capace di resistere all'attrazione suscitata da pratiche che la sviliscono".
Per imparare ad autolimitarsi, l'adolescente ha bisogno di interagire con un educatore che esprima autorità, ossia con una persona che sa sottostare al limite che pone all'altro, testimoniandone per prima il rispetto e mostrando che senza disciplina, non c'è alcuna libertà.
"È l'autorità a generare autorevolezza – ha concluso Mari -, ma l'educatore deve essere coerente e rispettare l'integrità psico-fisico-morale dell'adolescente senza aspettare il riconoscimento della sua autorità. Quello che si instaura, infatti, è un rapporto asimmetrico in cui suo dovere è guidare il giovane a lui affidato nello sviluppo della capacità di governare se stesso e di diventare una persona libera, capace di custodire se stessa".
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