Chi si aspettava una direzione del Partito Democratico capace di fare chiarezza sul futuro di questo partito che, piaccia o meno, è al momento il partito cardine del nostro sistema e quello su cui si regge di fatto il governo, sarà rimasto deluso. Le assise che si sono potute seguire in streaming, ma anche sulle frequenze di Radio Popolare e di Radio Radicale non hanno fatto altro che mettere in scena un teatrino in cui quasi tutti hanno recitato la parte che ci si aspettava mettessero in scena. Qualcuno magari lo ha fatto con comportamenti non verbali, come è stato il caso di D’Alema che non rinuncia ad interpretare quella che secondo lui sarebbe una specie di versione politica della famosa “ombra di Banco”, ma non è che sia stata veramente una sorpresa.
La battaglia interna al PD si gioca ormai più che altro nel gioco delle notizie da far filtrare con sapiente regia ai cosiddetti “retroscenisti” (quei giornalisti specializzati a rivelare cosa secondo le loro informazioni sta succedendo dietro le quinte). In pubblico magari si civetta poi a fare sembrare improprie e inesatte quelle notizie che si sono fatte fuggire ad arte.
Dunque cosa possiamo dire di aver capito dal dibattito che si è svolto il 13 febbraio nella direzione opportunamente allargata del PD? Innanzitutto quello che sapevamo benissimo e cioè che il gruppo dirigente si sta frantumando fra renziani ancora asserragliati nel loro fortino, antirenziani che premono alle sue porte più con suoni di tromba che con vere armi (si vede che si sentono come Gedeone davanti alle mura di Gerico) e personalità sparse che cercano di approfittare della contesa per migliorare i propri posizionamenti.
Le questioni del contendere sono tutte molto politiche nel senso non certo migliore del termine: quando è meglio andare a votare (meglio per ciascuno, non tanto per il Paese), quanto deve durare il governo Gentiloni, di cui tutti parlano benissimo, ma che ben pochi sono disposti davvero a sostenere. A questo fine infatti sarebbe necessario disarmare sul fronte delle continue diatribe interne, ma è quello che in sostanza nessuno sembra disposto a fare.
Allora ecco il ritorno dei vecchi mantra: Renzi fa l’uomo solo al comando e non tiene e conto della comunità di cui fa parte; il PD deve essere riportato fra le braccia del suo elettorato di sinistra deluso che non aspetta altro; ci sono ancora tante riforme da fare dunque è bene andare avanti col governo attuale. A ciò si ribatte ricordando che è tempo di uomini nuovi, che non si può buttare a mare un elettorato moderato che cerca solo un partito che garantisca la tenuta del sistema; che le riforme da fare non richiedono tutto questo tempo perché si tratta di cose che erano già state messe sul binario di arrivo dal governo precedente.
Non è solo un dialogo tra sordi, è un modo di procedere senza capo né coda, perché per stabilizzare la situazione (con la UE che incombe e le prospettive elettorali complicate per vari dei suoi membri chiave) ci vorrebbe quella unità di intenti che nessuno è disposto a fare, mentre è abbastanza sorprendente che si vagheggi una svolta a sinistra quando questo governo sta in piedi coi voti dei moderati.
Più che di queste schermaglie astruse ci sarebbe bisogno di progetti puntuali e concreti attorno ai quali coagulare il consenso ed indirizzare l’azione di governo, alla cui testa può essere Gentiloni che va avanti nel suo lavoro o qualcuno che esca da una competizione elettorale. Comprendiamo benissimo che su questo terreno non vuole scendere nessuno: da un lato perché è molto impegnativo, dall’altro perché in questo paese chi critica i progetti altrui parte quasi sempre favorito.
Eppure se non si rompe questa spirale perversa difficilmente si arriverà a ritrovare la fiducia di quel nucleo centrale di cittadini responsabili che sono necessari per far pendere in una certa direzione la bilancia del consenso. E se quelle categorie di cittadini non vengono conquistate gli spazi per i populismi di ogni genere diventeranno praterie.
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