“Alfredo dopo dieci anni di vita militare e tre guerre, tornato dalla Russia dopo cinque anni di cui tre di prigionia, percepì una misera pensione di invalido di guerra il cui importo era di 1.517 lire mensili nella quale veniva menzionato congelamento alle dita dei piedi, bronchite cronica acuta e perdita parziale delle corde vocali”. La vita di Alfredo Dalla Vecchia, artista artigiano, pittore e intagliatore, nato a Malo in provincia di Vicenza il 20 gennaio 1911, emigrato a Bolzano ventenne nel 1931, dove è convolato a nozze nel 1939 con Nella Raffaelli di Volano, è raccontata dal figlio Pierpaolo in un volumetto dal titolo “So che tornerai”, edito da Effe e Erre che ha riscosso grande interesse nel vicino Alto Adige. Figura in una piccola lista di soldati fortunati, tornati in famiglia dopo aver combattuto dal 1935 quale caporale del Genio telegrafisti in Abissinia, poi in Grecia ed infine sul fronte russo sul Don. Il rientro definitivo risale all’11 novembre 1945 per testimoniare successivamente, da convinto socialista, valori pacifisti, l’orrore della guerra e dei gulag.
In quel “So che tornerai tornerai” sono racchiuse le sofferenze, le emozioni e la speranza della consorte Nella che aveva perso ogni contatto con il marito dal settembre 1943. Sono pennellate sobrie di affetti familiari, di apprensioni, di paura in un racconto scarno, fatto sì di documenti storici militari, ma soprattutto di testimonianze, di confidenze e di insegnamenti di un devoto marito e di un buon padre di famiglia colpito dalla tragedia della guerra e in tempo di pace anche dalla morte prematura di due figli, sposati e con prole e dall’infortunio della consorte travolta da un auto a Rovereto con conseguente invalidità permanente.
L’iniziale interrogativo circa la pensione riservata a taluni invalidi di guerra, come gratifica per il prezzo pagato per la patria, trova una risposta nell’introduzione al lavoro di Lidia Menapace che definisce la ricostruzione “insieme un tratteggio preciso, ma in penombra, di Bolzano, dei suoi quartieri, della popolazione nella sua singolarità, di un periodo storico tutto intriso di guerre pesanti come vicende che tagliano vite, relazioni, affetti comuni, formazioni interrotte, insomma tutto quanto è stato presente nelle storie e nelle vite delle persone, ma non si trova nei libri di storia, si perde in racconti molto approssimativi e tradizionali”. Per Menapace dall’indagine di Pierpaolo scaturisce un idea “indelebile” che” nessun popolo vince mai una guerra, i popoli la perdono”. Indirizzandosi alla componente femminile della società Lidia Menapace scrive ancora che “lo spreco di vite umane, di gioia, di paura, di pericolo che ci incombe con le minacce di guerra sono per noi donne ragione della nostra libertà e crediamo anche della libertà, prosperità e serenità per il futuro”, ragioni generali oggi, come lo furono dunque per il passato. E’ questo il messaggio di un reduce che ha sempre confidato al figlio di aver avuto “un rapporto confidenziale con la morte”.
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