E’ una stagione difficile quella che sta vivendo la politica italiana. Le pressioni esterne non mancano, da quelle ereditate dal passato (crisi bancarie, disoccupazione, bassa crescita, ecc.) a quelle che si sono manifestate negli ultimi giorni: rilievi della UE sulla nostra legge finanziaria, attacchi tedeschi alla nostra politica di vario genere e provenienza, abbassamento del nostro rating da parte delle agenzie internazionali. Tutto questo richiederebbe una forte coesione nazionale capace di trasmettere autorevolezza al governo in carica, ma così non è. Il nostro panorama politico è, a dir poco, irrequieto e frammentato.
Non è ben chiaro innanzitutto quale sia l’orizzonte che Gentiloni e il suo esecutivo hanno davanti a loro. Secondo alcuni si forzerà per andare a votare presto, forse già a giugno, secondo altri questo era quanto ci si attendeva fino a poco tempo fa, mentre attualmente quasi tutti si orienterebbero a prevedere elezioni solo a fine legislatura (primavera 2018). Difficile capire quale delle due previsioni sia più credibile, perché in realtà tutto dipenderà dallo sviluppo che avranno le circostanze con cui ci troviamo a fare i conti.
Le variabili sono molteplici, se si assumono come punto di riferimento i desideri della classe politica. Da un certo punto di vista anche quelli che oggi più reclamano il ricorso veloce alle urne (Lega e M5S) potrebbero avere qualche interesse ad attendere: se la situazione rimarrà instabile e magari si complicherà anche, le chance di successo per loro potrebbero anche aumentare. In ogni caso non hanno problemi anche per elezioni vicine, perché sbandierano la minaccia del “grande inciucio” fra il PD e Berlusconi, un esito che si sostiene sarebbe quasi obbligato se si votasse con un sistema proporzionale. Naturalmente bisogna attendere il fatidico 24 gennaio con la pronuncia della Corte sull’Italicum, ma è improbabile a nostro giudizio che la sentenza risolva davvero il dilemma del sistema elettorale da scegliere.
Il PD ha molti problemi con la gestione di questo passaggio. Innanzitutto il partito è preda di tensioni interne notevoli, basti pensare alle prese di posizione di Bersani, ma anche alle varie candidature che si ventilano per la scelta al Congresso del segretario. Renzi non è più così saldo come prima del 4 dicembre scorso. Parecchi gli rimproverano, magari a mezza bocca, una gestione sbagliata del referendum e in ogni caso ha perso la posizione di guida del governo, il che significa che ha molte più difficoltà per gestire la sua presenza pubblica. Cresce in parallelo la considerazione di cui gode Gentiloni ed il suo approccio ai modi di presenza pubblica sottolinea una diversità dal suo predecessore. Ciò significa che non mancheranno coloro che suggeriranno, in un modo o nell’altro, che forse sarebbe meglio continuare con l’attuale esecutivo.
Renzi non ha molte armi per ribaltare la situazione, perché pesa su di lui l’immagine negativa di colui che ha già “assassinato” il suo predecessore. Inoltre una campagna elettorale che facesse perno sul prospettare il possibile avvento di un governo Renzi-Berlusconi, grazie ad un sistema elettorale proporzionale, sarebbe sufficiente a far fuggire consensi dal PD verso sinistra e da FI verso destra. La strategia dell’ex premier sembrerebbe al momento puntare su una rivitalizzazione del suo partito, ma è una operazione oggettivamente difficile, che per di più lui sempre giocare più con l’occhio all’immagine sui media che con l’applicazione nella ricerca di quella nuova elaborazione culturale di cui ci sarebbe oggi grande bisogno.
Del resto non può aspettarsi grande aiuto da Berlusconi, più centrato sul sogno di ritornare in campo personalmente ed ottenere così una rivincita che non attento a produrre una qualsiasi strategia per il futuro del paese (in questo campo finora ripete solo le affermazioni dei suoi anni d’oro). Aggiungiamoci che l’attesa di un sistema elettorale proporzionale non fa certo aumentare le spinte alla riaggregazione dei gruppi politici, quanto piuttosto lascia intravvedere la possibilità di nuove fratture, cosa che sarebbe facilitata se davvero, come si ventila, la futura normativa prevedesse una soglia di sbarramento molto bassa (il 3% del consenso elettorale).
La prossima settimana qualcosa si chiarirà non fosse altro perché avremo la tanto attesa sentenza della Consulta: che questa sblocchi la situazione, francamente dubitiamo.
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