Da lunedì 10 ottobre accoglienza negli edifici dei Dehoniani e dei Comboniani per 18 rifugiati: la portata culturale di un progetto coordinato dai gesuiti del Centro Astalli e finanziato dalla Provincia
Dopo l’operazione “Canoniche aperte” avviata l’anno scorso, questa potrebbe chiamarsi “case religiose aperte”. Interpellate dall'inarrestabile fenomeno migratorio, alcune famiglie religiose trentine si sono ritrovate attorno allo stesso tavolo ed hanno deciso di destinare parte delle loro strutture all'accoglienza di profughi o richiedenti asilo. Ma non si tratta soltanto di mettere a disposizione i locali: parliamo di un progetto coraggioso che coinvolge nel vivo le stesse comunità religiose, chiamate dai nuovi bisogni a rilanciare i propri carismi all'insegna della qualità delle relazioni prima ancora che alla quantità di risposte.
Sono 18 i giovani richiedenti asilo, per lo più nordafricani, che in questi giorni trovano casa presso i Dehoniani a Villazzano e i Comboniani a Muralta, all’interno dell’inedito progetto finanziato dalla Provincia attraverso il Cinformi e coordinato dal Centro Astalli che vi impegna per ora tre operatori part time e altri tre consulenti per servizi specialistici. Come si è arrivati a bussare a queste porte? “Il nostro Centro Astalli, come Servizio dei Gesuiti per i rifugiati attivo da dieci anni in Trentino – spiega il responsabile Stefano Canestrini – vuole insistere su una modalità di accoglienza centrata sulla relazione umana. Per questo ci siamo rivolti agli istituti religiosi pensando che questi luoghi sono stati nel tempo ambienti di scambio e d’incontro. La risposta positiva dovrebbe rendere possibile quella reciproca contaminazione degli immigrati con le varie esperienze delle comunità locali che può durare nel lungo periodo, aldilà dell’emergenza”.
Padre Alberto Remondini, superiore dei Gesuiti trentini pure impegnati nell’accoglienza a Villa Sant’Ignazio, è visibilmente soddisfatto per l’itinerario compiuto in questi mesi dagli istituti religiosi: “Potremmo dire che i rifugiati hanno fatto incontrare i religiosi, ci hanno obbligato a valutare insieme come poterci inserire in questo lavoro sociale portando il nostro specifico. Con una modalità relazionale che possa andare oltre le esigenze e le rigidità con cui la Provincia deve fare i conti. Sta realizzandosi un’ipotesi progettuale molto interessante anche per il coinvolgimento del tessuto comunitario”. Ne è convinto anche l’assessore provinciale competente Luca Zeni che ricorda peraltro i 30 appartamenti già messi a disposizione dalla diocesi: “Questo progetto con gli istituti religiosi, che conferma una sensibilità diffusa nel mondo cattolico, va nella direzione del nostro modello trentino di accoglienza che punta su piccoli gruppi di rifugiati per favorire l’accettazione sociale e l’accoglienza nelle comunità: coinvolgendo i profughi, ci si conosce reciprocamente e possono cadere molti muri”.
Qui Dehoniani. Vengono dal Mali, Senegal e Gambia i primi sei ospiti dei Dehoniani, arrivati nel pomeriggio di lunedì 10 ottobre sulla collina di Villazzano dove i più giovani frequentano il vicino CFP Enaip. Un rapido intervento di ristrutturazione ha consentito di ricavare per loro tre stanze a due letti e una comoda cucina a piano terra in quella che un tempo era la casa colonica della villa Parolari (acquistata nel 2000 assieme alla casa padronale dai Dehoniani dopo la vendita dello stabile di via Chini) e destinata finora ad attività pastorali con i giovani. “La chiamano ‘casa rossa’ i gruppi che vengono quassù per settimane comunitarie di scout e parrocchie o week end di ritiro – spiega padre Silvano Volpato, superiore della comunità di sei religiosi Dehoniani – non è una casa vuota, ma già funzionante e preziosa. Ora però nell’ala sinistra abiteranno questi ospiti venuti da lontano”.
Una scelta non scontata per una piccola comunità di sei religiosi: “Dopo alcune chiarificazioni, abbiamo detto: ci stiamo – racconta padre Silvano, entusiasta del discernimento interno – abbiamo colto nella richiesta di ospitalità del Centro Astalli una sollecitazione per il futuro. Più che inventarsi piste nuove, gli istituti religiosi come il nostro devono avere il coraggio storico di lasciarsi intercettare da quanto già si sta muovendo nella direzione indicata a chiare lettere da Papa Francesco alle comunità religiose e ai monasteri”.
Vi sentite preparati? “Siamo ancora alle buone intenzioni, ma siamo convinti che questo piccolo nucleo di immigrati possa trovare una buona contaminazione con gli altri gruppi che continueranno a venire qui. E' una strada per favorire la cultura dell'accoglienza. Ci siamo detti che questa nuova apertura ci riporta alle radici del nostro carisma quando nell'Ottocento il nostro fondatore padre Dehon si dedicava ai bisognosi del suo tempo. Il nostro provinciale e il stesso padre generale ci hanno spronato in questa “costruzione”. Puntiamo con fiducia sull’esperienza del Centro Astalli nel tentativo di favorire un’integrazione anche con il territorio – coinvolgeremo il Consiglio pastorale e quello Circoscrizionale – e con i gruppi giovanili. L'accoglienza è fondamentale nella spiritualità cristiana”.
Qui Comboniani. È storico anche l’edificio in località Muralta, affacciato come un balcone sulla città, che ha accolto nel secolo scorso generazioni di studenti comboniani. Venuta meno la funzione di seminario formativo, la comunità da qualche anno aveva riadattato il piano terra del grande stabile di via delle Missioni Africane ad accoglienza di gruppi. Ora la proposta di riconvertirlo ai profughi (12 in tutto, provenienza Nordafrica e Pakistan) si è rivelata come una possibilità di dare continuazione all’intuizione del santo fondatore Comboni di “dare la vita per gli Africani”. “Anche il consiglio provinciale della nostra Congregazione ci ha spinto in questa scelta che risponde all’invito di Papa Francesco ad accogliere con atteggiamenti di umiltà e di fede – spiega padre Stefano Zuin, il superiore che segue il progetto assieme all’economista padre Rinaldo Ronzani e a padre Mariano Prandi – siamo partiti per l’Africa nei decenni scorsi, ora è l’Africa che viene da noi: come possiamo non accogliere?”. Confessa poi che “chi come noi ha praticato la missione, chi si è sentito accogliere dentro un villaggio o dentro una capanna, non può negare un tetto a chi ne ha bisogno. Certamente – precisa – con criteri intelligenti, non paternalistici. M’incoraggia la serietà dei Gesuiti che ho visto all’opera fra gli 800 mila profughi mozambicani arrivati in Malawi, una delle nazioni più povere del mondo”. A che cosa dovete rinunciare con questa scelta? “Penso che oggi sia davvero una priorità. La Provvidenza ci indica strutture che non riusciamo neppure più a gestire e ci dice: usatele, per chi ne ha più bisogno. Se non siamo accoglienti, che razza di missionari siamo?”.
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