Con competenza e passione storica, nel suo libro l'autore smonta l'immagine di Ezzelino come tiranno sanguinario e anticristo. Anche Dante la pensava così
È stato dipinto come un tiranno sanguinario, un uomo che conosceva solo la violenza, un possibile anticristo: ma Ezzelino III da Romano (1194-1259) è stato tra il 1220 e la sua morte uno dei regnanti e dei politici maggiori dell'Italia di allora. Analizza le sue vicende nel libro “Il grande assalto” (Marsilio editore, euro 17,00) Giorgio Cracco, docente universitario a Padova, Torino e Berkeley e conosciutissimo nel mondo culturale trentino per essere succeduto a Paolo Prodi alla guida dell'Istituto Storico Italo-Germanico di Trento, che diresse dal 1998 al 2005.
Nato una da famiglia di “piccioli sovrani”, Ezzelino III operò sulla scia dell'imperatore Federico II, di cui sposò la figlia Selvaggia. In un “Nordest” in cui Venezia era fiera regina del mare, puntò ad unire l'entroterra veneto sotto la sua guida: dalle terre familiari del bassanese alla docile Vicenza, dall'inquieta Padova a Verona dove risiedette per lunghi anni. Estese poi le sue mire fino a a Brescia, che conquistò nel 1258 e morì nel fallito tentativo di conquistare Milano, nel 1259.
Ezzelino controllò anche Trento, tra il 1241 e il 1255, particolarmente interessato alla posizione geografica della città; e nel 1256, come scrive Cracco “da Verona si portò verso Trento, che si era ribellata l'anno prima, e dopo un breve assedio la fece capitolare abbandonandola a un feroce saccheggio”. Fu dunque il protagonista di un periodo buio della storia trentina, mettendo sotto scacco la volontà di indipendenza di queste terre.
Come Federico II, anche Ezzelino fu un “figlio della guerra” e operò con la crudeltà abituale nel Medioevo, che non risparmiava nulla ai nemici, in un mondo dove alleanze politiche e tradimenti si susseguivano assai in fretta. Cracco però, in un libro leggibile e che trasmette al lettore la passione storica del suo autore, smonta l'immagine di Ezzelino come “re malvivente”, analizzandone l'operato nel contesto del Duecento, nelle contrapposizioni tra ghibellini e guelfi, tra nobili e borghesi, e negli aspetti economici e produttivi che contrassegnarono le zone da lui governate.
L'aspetto originale del libro è la tesi, documentata, della riabilitazione storica di Ezzelino da parte di Dante che, alla fine del XIII secolo lo aveva condannato all'inferno nella “Divina Commedia” tra i governanti sanguinari. Nel 1314, ospite a Verona di Cangrande della Scala, Dante concepiva l'idea di un imperatore italiano che fosse guida politica e protezione dei cristiani d'occidente (un po' come aveva cercato di fare Ezzelino, almeno in politica – per quanto concerne la religione, era stato scomunicato). Viste le drammatiche incombenze politiche di quegli anni, nel canto IX del “Paradiso” la sorella di Ezzelino, Cunizza, lo rievoca come “una facella / che fece alla contrada il grande assalto”: una luce per l'assalto contro gli egoismi e l'incertezza politica, per riunire le genti del nord Italia sotto un'unica mano, forte e sicura.
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