Esperienze di collaborazione, progetti comuni, dialoghi e confronti esistono, ma sono espressioni minoritarie
Nel suo intervento al funerale dell’ex presidente Shimon Peres, Barack Obama ha bacchettato il premier israeliano Benyamin Netanyahu ricordandogli, a proposito delle politiche del suo governo nei confronti dei palestinesi, che “il popolo ebraico non è nato per comandarne un altro”. Peccato che recentemente l’amministrazione americana abbia stanziato, come già tante altre volte, 38 miliardi di dollari per l’esercito con la stella di David. Guardare al conflitto israelo-palestinese che va avanti da decenni, alternando fasi di maggiore e minore intensità, vuol dire anche sottolineare le contraddizioni di un impasse che conviene a molti, a troppi, da una parte e dall’altra (fatto salvo che l’occupazione israeliana costringe i palestinesi a vivere in veri e propri bantustan mietendo vittime civili in continuazione). Uno stallo che ormai dura da anni – dopo l’illusione degli accordi di Oslo sottoscritti a Washington nel 1993 tra il leader dell’Olp Yasser Arafat e Peres, allora ministro degli esteri – foriero di continue destabilizzazioni in tutto il Vicino Oriente, Siria e Iraq compresi.
Che di passi in avanti sia difficile farne, per quanto iniziative che partono dal basso possano alleviare sofferenze, combattere povertà e fame di popolazioni segregate e allo stremo, lo si è capito anche al convegno, “Scenari di guerra. Spiragli di pace”, svoltosi qualche giorno fa a Trento, nell’aula Kessler dell’università, in via Verdi, promosso dall’associazione Pace per Gerusalemme in collaborazione con il Forum trentino per la pace, momento di riflessione di un più ampio pacchetto tra film, conferenze e dibattiti. Perché, molto candidamente, il presidente del Forum, Massimiliano Pilati, ha riferito che, nell’organizzare l’appuntamento, richiesta ad alcuni relatori israeliani e palestinesi la partecipazione, si è sentito rispondere di no vista la presenza, allo stesso tavolo, della parte avversa. Il che non vuol dire che esperienze di collaborazione, progetti comuni, dialoghi e confronti non ci siano. Ma, come è stato riconosciuto da alcuni partecipanti, sia israeliani che palestinesi, sono espressioni minoritarie, che non corrispondono al sentire comune o quantomeno maggioritario della propria parte.
“E’ necessario cercare – ha detto Micaela Bertoldi – una ragionevole risoluzione al conflitto israelo-palestinese e dobbiamo chiederci, senza infingimenti, se la cooperazione e la solidarietà internazionali possono rispondere alle nuove sfide e quali siano gli strumenti e le forme più efficaci visto che l’ipotesi dei '2 Stati per 2 popoli' sembra una formula non più percorribile”.
Sami Adwan, palestinese, fondatore del Peace Research Institute in the Middle East – istituto di formazione e analisi per insegnanti e politici dedito ad individuare strumenti e forme che favoriscano il processo di pace con sedi a Beit Jala, in Cisgiordania e Tel Aviv – ha affermato che “i palestinesi vogliono l’indipendenza, ma anche uno stato israeliano sicuro”. Ma per far capire qual è la situazione reale ha parlato dei libri di storia adottati dalle scuole israeliane e da quelle palestinesi. “Sono testi controllati dalle autorità politiche – ha sottolineato –. Per cui, quelli israeliani non includono le vicende riguardanti i palestinesi, e viceversa. Sono due narrazioni distinte. Abbiamo preparato un libro di storia che riportasse le ragioni dell’uno come dell’altro, ma non abbiamo avuto alcun impatto politico. Palestinesi e israeliani non hanno accettato la nostra proposta”.
Jeremy Milgrom, pioniere del dialogo interreligioso, ispiratore dell’associazione “Rabbini per i diritti umani”, ha sostenuto che “il mondo occidentale ha più attenzioni nei confronti degli ebrei che verso i palestinesi, il governo italiano non insiste, come pure altri esecutivi europei, perché ci sia un cambiamento reale, in questo modo sarà difficile arrivare alla pace”.
Per l’antropologo Jeff Halper, pacifista del Comitato israeliano contro la demolizione delle case, arrestato decine di volte per la sua attività, “la soluzione è uno Stato binazionale, consociazionale, multiculturale, dove ci sia uguaglianza per tutti. In qualche modo simile alla Svizzera. La prospettata soluzione dei 2 Stati per 2 popoli è ormai morta. Ma, per ora, non stiamo facendo passi in avanti in altre direzioni. E’ una tragedia”.
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