Don Lusek, cappellano della squadra olimpica italiana: una "presenza discreta" segno della vicinanza della Chiesa
Preferisce definirsi una “presenza amica” per tutti, atleti, tecnici e dirigenti, più che un "coach dell'anima”, una presenza “non invasiva”, ma discreta e riservata, don Mario Lusek, cappellano sportivo della squadra olimpica italiana a Rio. Don Lusek è con il team olimpico azzurro – 308 atleti (164 uomini, 144 donne), di 34 discipline, in parte già a Rio de Janeiro. Il 3 agosto sarà inaugurata Casa Italia alla presenza del premier Matteo Renzi che assisterà alla cerimonia di apertura il 5 agosto. Il 21 agosto la cerimonia di chiusura e il 22 la partenza per l'Italia. "Speriamo con un bel po' di medaglie”, dice don Lusek.
Don Lusek, qual è il suo ruolo all'interno della squadra olimpica italiana?
Il cappellano è un membro ufficiale della Delegazione olimpica accreditato dal Coni. Può seguire gli atleti negli stadi, ne condivide la mensa e i pochi spazi di tempo libero. E' una presenza discreta, ma visibile, vicina ma sempre un po' indietro, evitando di occupare le prime file e per questo viene percepita nel suo vero ruolo reso credibile e autorevole perché portatore di uno spirito di familiarità, di spiritualità. Non c'è rifiuto o ostilità alla presenza di un prete. Anche se all'interno del Villaggio è previsto un Centro multireligioso, noi italiani preferiamo vivere i momenti liturgici negli spazi assegnati al contingente, con orari flessibili in base agli orari di gare, allenamenti e momenti comuni già programmati.
Come è la sua giornata nel Villaggio olimpico?
Vivo gomito a gomito con gli atleti, gli accompagnatori, i tecnici e tutti gli addetti ai lavori. Posso anche accedere agli allenamenti, ma io non amo “invasioni di campo”, soprattutto in momenti come quelli. Mi considero una presenza amica, ovviamente in nome di una fede e di una appartenenza che non esclude ma si fa prossima. Per questo mi capita di assaporare i sospiri che aleggiano, di andare quando mi è possibile alle gare, di gioire per una vittoria e quindi fare festa, di condividere le sconfitte se necessario consolando. Sempre con molta discrezione.
Quanto è difficile consolare un atleta dopo una sconfitta, una medaglia persa al fotofinish, soprattutto quando la competizione – come le Olimpiadi – è associata all'aspetto economico garantito dagli sponsor?
Per molti atleti l'Olimpiade rappresenta una solo occasione nella vita ed è chiaro che le aspettative e i sogni sono molti. Non mi è mai capitata una situazione di delusione assoluta, ma solo attimi di amarezza: è importante in questi casi aiutare a tenere alta la testa dopo una sconfitta, oltre a riconoscere che le capacità personali non vengono azzerate da un episodio. Vincere una medaglia olimpica porta dei benefici economici e per gli atleti di molti sport questo avviene solo ogni quattro anni, quando tutti gli occhi del mondo sono puntati su di loro. Questo non è un male, anzi. Il problema nasce quando la ricchezza di valori che lo sport porta con sè viene smarrita con l'mergere dell'eccessiva spettacolarizzazione, l'accendersi del confronto agonistico e l'altro da avversario diventa nemico, e il premere dell'interesse economico mette in ombra la centralità della persona.
C'è un episodio, uno sportivo, che più di ogni altro spiega il suo ruolo dentro la squadra olimpica?
Certamente, diversi e belli. Ma proprio per questo richiamo alla discrezione vorrei evitare di indicare nomi e fatti. Posso assicurare che sono esperienze che dimostrano che la fede, la religione non sono estranee allo sport e che la disponibilità del prete favorisce l'intreccio di rapporti e contatti che pur momentanei, legati al tempo olimpico, diventano significativi e permanenti.
Nella sua lunga esperienza di cappellano, negli atleti vede più fede o più superstizione?
Gli atteggiamenti scaramantici non mancano; vanno collocati in un contesto più ludico che esperienziale e osservati con il sorriso: ci sono anche esperienze che raccontano la fede dei singoli, come atleti che pregano, che portano la Bibbia o il Vangelo con sè, che accedono alla confessione, che confidano i loro dubbi in maniera serena.
Nel panorama olimpico ci sono esperienze come quella italiana circa il servizio religioso alle squadre?
L'esperienza italiana è stata imitata da altre nazioni e non solo di tradizione cattolica, anche se con modalità diverse, tanto che Papa Francesco nell'udienza per i 100 anni del Coni ha elogiato l'Italia per questa scelta.
A Rio mancheranno, tra gli altri, i cestisti e il marciatore Alex Schwazer, fermato di nuovo per doping. Cosa dire agli atleti che non hanno staccato il pass olimpico?
Il caso di Alex è serio. La sua marcia si era interrotta bruscamente a Londra nel 2012. Io ero là. Ha ammesso la sua colpa. Ha pagato il debito. Si è umiliato. Si è rialzato ed ha ricominciato a camminare con slancio, passione, coraggio e voglia di riscatto. Questo nuovo cammino si è fermato o è stato fermato di nuovo: è una sconfitta per tutti se non si diradano le ombre. Altri non ce l'hanno fatta a qualificarsi e quindi è un'occasione persa. Ogni atleta sa che non può fermarsi mai dinanzi ad un ostacolo: bisogna ripartire da esso per tornare a guardare lontano e sognare ancora. Così come nella vita.
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