L'abbraccio? Non s'ha da fare. Sentono i brividi scorrere lungo la schiena quei “bravi” politici, crociati praticanti, che non hanno perso tempo per sconfessare il gesto simbolico vissuto domenica sera in molte chiese italiane tra esponenti cattolici e musulmani. La diffidenza li porta a vedere marcio dietro la buccia apparentemente sana. E il tenore dei comunicati, puntuali come bombe a orologeria, non lascia adito a tentennamenti: è solo operazione di facciata, ingannevole. E ancora: gli islamici non cercano il dialogo. Vogliono imporre la propria religione, vivono per la guerra santa. Prima o poi pagheremo aperture di questo tipo, addirittura delle porte del Giubileo nelle nostre chiese, oramai violate inesorabilmente dal vento del Ramadan.
Su una cosa siamo tutti d'accordo: non è accettabile sminuire la paura collettiva, il timore di essere bersaglio mobile, ovunque ci si trovi, di radicalizzati jihadisti, spesso umanamente problematici, infiltrati in masse innocenti dove ognuno segue liberamente la propria fede. Ma il problema è che da qualche parte dobbiamo pur ripartire. E se ci credi veramente, se non tradisci le fondamenta della religione cristiana, non puoi non fidarti di chi ti tende la mano. Altrimenti difendi un Vangelo del tutto strumentale, fatto di convenzioni e opportunismi, di pura forma. Quando invece il Vangelo è monumento alla concretezza, alla verità, alla pazienza che crede anche nei piccoli gesti come speranza per un domani diverso. Gesti come quello dal sapore storico di domenica, totalmente lontano dalla prassi abituale e per questo definito dal vescovo Lauro “straordinario”, nel senso letterale del termine, ovvero “al di là dell'ordinario”.
Se tutta l'energia posta nel demolire iniziative come questa fosse realmente destinata alla causa della propria religione, forse registreremmo un po' meno disaffezione nelle nostre navate. E invece cresce la percezione che i profeti della purezza siano spesso tra coloro che delle proprie chiese, fermandosi però al sagrato, si accorgono solo quando c'è da distribuire santini pre-elettorali.
C'è un termine evocato dai nostri “bravi” ad ogni abbozzo di ragionamento sulla convivenza tra Cristianesimo ed Islam ed è la parola “reciprocità”. Il filo conduttore è più o meno questo: fin tanto che non vi sarà nei loro Paesi libertà di culto, non la potranno pretendere da noi. Do a te quel che tu riservi a me. Pan per focaccia. No chiese, no moschea. Vero: all'interno di alcuni mondi islamici non esiste spesso alcuna tolleranza nei confronti delle altre fedi. Ma non abbiamo alternative per iniziare a seminare e coltivare terreni diversi, e cercare di isolare gli invasati della Jihad. Perché il termine reciprocità non rientra affatto nel vocabolario evangelico. Non almeno come lo si intende normalmente. Potrà non piacere, ma la verità è questa: per i cristiani la vera reciprocità , soprattutto in quest'anno dolorosamente insanguinato ma pure gioiosamente santo, si traduce nella parola misericordia. Data. E, forse, ricevuta. Ma senza garanzie, a parte quelle offerte dal Dio di Gesù Cristo. Il quale, di reciprocità, ne conosceva solo una: amare gli altri, come se stessi. Chissà cosa ne penserebbe padre Jacques, chissà se domenica avrebbe aperto le porte della sua chiesa se due folli non avessero puntato proprio a lui. Ai “bravi”, ad ogni buon conto, l'ardua sentenza: meglio don Abbondio o fra Cristoforo?
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