Le grandi estinzioni sono state il brodo di coltura per processi di evoluzione e differenziazione che hanno condotto il pianeta al punto nel quale si trova oggi
Tra qualche decina d’anni potremmo nuotare in un mare d’alghe. E, una volta usciti dall’acqua, non trovare più ristoro dal sole sempre più cocente riparati dalle fronde di tamerici e pini marittimi ormai ridotti al lumicino. Cicli biogeochimici stravolti, cambiamenti climatici, acidificazione degli oceani, buco nell’ozono, perdita progressiva della biodiversità e cambiamenti traumatici nell’uso dei suoli sono realtà che gli scienziati più avveduti segnalano da anni ma che la politica globale fa fatica a metabolizzare mettendo in atto provvedimenti concreti e tangibili. Tanto che l’aggressione dell’homo sapiens sull’ambiente è ormai così virulenta da mettere a serio rischio la sua stessa sopravvivenza paventando una sesta estinzione, quella dell’Antropocene, come chiamano i geologi il periodo attuale.
Magari l’uomo sopravviverà, capace com’è sempre stato di adattarsi ma, probabilmente, non se la passerà un granché bene. Trascinando con sé tante e tante specie.
Come, d’altra parte, successo in un remoto passato anche se per cause che nulla avevano a che vedere con la presenza del bipede per eccellenza, in quanto a intelligenza, nel bene e nel male. Perché 450 milioni di anni fa la prima estinzione avrebbe fatto sparire i due terzi delle specie tra derive dei continenti, glaciazioni o esplosioni di supernove mentre la seconda non sarebbe stata da meno a causa di qualche asteroide, forse, caduto in Terra con effetti devastanti.
Per non parlare della terza (251 milioni di anni fa), la più tremenda, che si portò via il 96% delle specie animali e il 75% dei vertebrati terresti o della quarta, nel corso della quale la temperatura atmosferica aumentò di 5 gradi oppure della quinta che fece sparire i dinosauri.
“Estinzioni. Storie di catastrofi e altre opportunità” è la mostra in corso al Muse di Trento (fino al 26 giugno 2017), curata da Massimo Bernardi, Michele Menegon, Alessandra Pallaveri (ricercatori del museo) e da Telmo Pievani dell’Università di Padova, che mette al centro della riflessione il passato come il possibile futuro. Partendo da una considerazione ormai acquisita. E cioè che le grandi estinzioni sono state il brodo di coltura per processi di evoluzione e differenziazione che hanno condotto il pianeta al punto nel quale si trova oggi. Con una differenza, si verificasse la sesta: che sarebbe solo ed esclusivamente responsabilità della dabbenaggine dell’uomo.
“Estinzioni” è un viaggio dentro questo percorso che si apre con lo scheletro di un grande dinosauro sauropode per proseguire con un cranio di Homo neanderthalensis “Guattari I”, “il più completo preservato nel nostro Paese”, prestato dal museo “Pigorini” di Roma.
Certo, colpisce la sezione che presenta alcuni degli esemplari di specie ormai estinte, e mica tanto tempo fa. Il leone berbero, l’ultimo è stato ucciso nel 1943 in Algeria, il tilacino, un marsupiale, morto in cattività, in uno zoo in Tasmania, nel ’36, e si chiamava Benjamin. Oppure il dodo, un uccellaccio inetto al volo che si trovava solo alle Mauritius e il cui habitat venne compromesso dai colonizzatori portoghesi.
Installazioni multimediali e video accompagnano l’esposizione. Grazie alla tecnologia del morphing, ad esempio, il visitatore vedrà trasformato il proprio volto in quello di un uomo di Neanderthal.
“In questa mostra – sottolineano i curatori – vengono messi in dialogo i grandi eventi di crisi del passato con l’epoca che stiamo vivendo offrendo una lettura critica del nostro presente e delle prospettive future dell’ecosistema Terra”.
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