Dopo quello di Bruxelles, un altro aeroporto finisce sotto attacco. Martedì 28 giugno è toccato allo scalo “Ataturk” di Istanbul, la più grande città della Turchia. Il bilancio della strage è di almeno 36 morti; oltre 140 i feriti. Le modalità dell’azione degli attentatori – in tre hanno sparato sulla folla e si sono poi fatti saltare in aria ai terminal quando le forze di sicurezza hanno cercato di fermarli – ricordano quella del 22 marzo scorso all’aeroporto di Zaventem a Bruxelles, rivendicata dall’Isis.
L’attentato potrebbe essere la risposta dell’autoproclamatosi Califfo al Baghdadi all’atteggiamento ambiguo della Turchia in questi anni e in particolare del suo presidente Erdogan, che ha ora favorito, ora perseguitato l’Isis. La Turchia, Paese membro della Nato, è stata capace nel contempo di fare affari con l’Isis (petrolio), stringere accordi con l’Ue per accogliere – dietro miliardario compenso – profughi e rifugiati, minacciare i Paesi occidentali che riconoscevano il genocidio armeno, siglare patti con Hamas e negoziare intese in funzione anti-iraniana con Israele.
L’attacco è l’ennesimo in Turchia: sono almeno cinque quelli attribuiti all’Isis, mentre solo negli ultimi mesi Istanbul è stata colpita ripetutamente, dallo Stato islamico o da frange di militanti kurdi.
La Chiesa cattolica turca si è stretta in preghiera per le vittime della strage e per tutto il popolo turco. In Italia mercoledì 29 l’aula del Senato ha osservato un minuto di silenzio per le vittime dell’attentato, che ha avuto eco mondiale.
Meno clamore ha suscitato la serie di attacchi suicidi che solo due giorni prima, il 26 giugno, ha colpito la cittadina di al-Qaa nel Libano orientale, nei pressi del confine con la Siria, provocando nell’area a maggioranza cristiana nove morti e una quindicina di feriti, anche gravi. Da tempo gruppi terroristi operano nella zona per assumere il controllo di un’area finora esempio di convivenza pacifica fra cristiani e musulmani.
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