Toccante chiusura al Caffè letterario Bookique delle iniziative promosse in Trentino da Cinformi e associazioni per la Giornata del Rifugiato
“L'immigrato è una foglia/caduta da un albero/in autunno/solo per essere calpestata/dal primo passante”. Traspare da questi versi tutto il senso di impotenza e di fragilità, e il dolore di chi deve lasciare la propria terra, costretto ad abbandonare affetti, casa, lavoro per ricominciare da capo in un paese straniero. Emerge anche la forza della parola poetica nell'essere “cronaca” asciutta ed essenziale ma densa di sentimenti profondi, voce di storie altrimenti ignorate. Le storie di chi parte rischiando di perdere l'unica cosa che gli è rimasta, la vita, umiliata, calpestata, ignorata, ridotta a mero numero per elaborare statistiche e comporre titoli di giornali.
Storie che il giornalista e attivista per i diritti umani Basir Ahang ha “tradotto” in Sogni di tregua (Gilgamesh, 2015), una serie di liriche che hanno rappresentato il filo conduttore del dialogo che Alessandro Graziadei ha tenuto con l'autore venerdì 24 giugno alla Bookique di via Torre d'Augusto a Trento.
Ahang, nato a Ghazni, in Afghanistan, nel 1984, rifugiato politico dal 2009, era ospite al Caffè letterario nell'ambito delle iniziative promosse da Cinformi insieme ad altre associazioni e cooperative che si occupano dei richiedenti asilo arrivati in Trentino per la Giornata mondiale del Rifugiato 2016 e ha offerto un'intensa testimonianza dialogando poi con i presenti.
In Sogni di tregua sono raccolte una trentina di poesie struggenti, memoria di un popolo, quello afgano, martoriato da una guerra quarantennale, e di un'etnia, quella Hazara, alla quale Ahang appartiene, perseguitata da sempre.
“Non mi considero un poeta, ma i miei articoli non venivano pubblicati, ho dovuto trovare un altro modo per raccontare ciò che ho visto”, ha detto nel corso dell'incontro ricordando che nel 2009, quando era andato a Patrasso, in Grecia, per documentare la tragica situazione dei rifugiati, appena tirata fuori la telecamera era stato portato negli uffici della polizia. Il resoconto di quel viaggio è poi diventato un documentario, “La voce di Patrasso”, e molte delle sue poesie sono state tradotte in italiano, inglese e spagnolo ricevendo premi e riconoscimenti internazionali e mostrando che il linguaggio dell'arte trova la via per farsi ascoltare, rompendo il muro dell'indifferenza e dell'ignoranza.
“Sono un esule vagabondo/E la mia patria non son altro che le mie scarpe”. E ancora: “è tempo di andare/tocca a me raccontare le acque vagabonde/del Mediterraneo/affinché le orme dei miei piedi divengano indelebili”. Sono frammenti che esprimono il canto del migrante, privato di tutto, e quella di Ahang è la voce di un uomo che è testimone e voce narrante di passi che non possono essere dimenticati. Quelli di storie che altrimenti resterebbero invisibili, inghiottite dal mare, cancellate da acque nelle quali molti hanno perso la vita.
“Nel 2001, speravamo di poter sconfiggere il terrorismo con l'appoggio delle forze armate dell'Alleanza Atlantica e di iniziare la ricostruzione del Paese, poi però gli interessi politici internazionali hanno modificato profondamente la cartina geografica di quella zona soffocando la speranza”, ha ricordato ripercorrendo le tappe principali della storia dell'Afghanistan. Ora il 36% del territorio è controllato dai Talebani, 220 mila persone sono fuggite, 180 mila sono arrivate in Germania: “Esule vagabondo narra la condizione esistenziale di più di 65 milioni di rifugiati: quando l'ho scritta pensavo al rispetto dei diritti e dei valori umani di cui l'Unione Europea era baluardo, ma oggi è un giorno triste (l'Inghilterra ha scelto di non farne più parte, ndr) e dopo l'accordo dell'UE con la Turchia, per me la Carta europea dei diritti umani non ha più valore così come la Convenzione di Ginevra. I rifugiati rimasti in Grecia si trovano in condizioni vergognose, le donne sono diventate schiave e vengono vendute, i minori si prostituiscono”.
Nelle poesie di Ahang è molto forte il riferimento alla sua cultura d'appartenenza e nel libro è inserita un'unica ma significativa immagine, quella dei Budda di Bamiyan, distrutti dai Talebani nel 2001 e dichiarati patrimonio dell'Unesco nel 2003: “Sono il simbolo della mia storia e della mia cultura e quello è stato un attacco volto a eliminare la nostra identità, ma sono anche un simbolo storico-culturale che appartiene a tutta l'umanità”. Il giornalista definisce il suo Paese “un giardino con tanti fiori, costituito da tante etnie”, ma la persecuzione del popolo Hazara, è continuata sistematicamente fino ad oggi, e anche per questo scrive poesie e ha fondato il sito di informazione www.hazarapeople.com per richiamare l'attenzione “su un genocidio di cui nessuno parla”.
La voce del poeta racconta una realtà tragica intrisa di morte, rabbia, abbandono, disperazione per l'esilio forzato – “le mie stesse scarpe sono tutta la mia terra/poiché in un mondo di tale grandezza/non c'è posto in cui mi sia dato vivere” -, ma Ahang non si rassegna, continua a narrare perché spera e “malinconico ma ardito (…) scrivo sui muri della notte «portare rifugio all'umanità»”.
I rifugiati infatti non sono numeri o merci da marcare con un'etichetta di scadenza, e l'accoglienza non deve essere dettata dall'emergenza, ma appunto da un sentimento di umanità che porta ad allungare la mano per conoscere l'altro ed esserne responsabili, non per controllarlo, come ha sottolineato Razi Mohebi, regista afgano anch'egli rifugiato politico in Italia con la famiglia, presente all'incontro insieme ad alcuni rappresentanti del Gruppo Amnesty International di Trento che hanno presentato una petizione al Governo italiano affinché si creino canali umanitari sicuri per i rifugiati.
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