“Gregario d’Europa”

Dai trionfi di Moser al duello con De Zan: «Accettai di fare il “numero due”». «Il giornalismo resta la passione della vita. Ma oggi tutti urlano» «Schwazer? Non doveva tornare». «Brexit? Scioccato ma me l'aspettavo». «L'immigrazione? Alzare barriere è la soluzione peggiore»

«Si capiva che Thurau era cotto e Moser avrebbe vinto a mani basse». 4 settembre 1977, San Cristobal, Venezuela, mondiali di ciclismo. «Ero l'unico inviato RAI. De Zan non c'era, costava troppo portare lo studio mobile. Quindi avevo mano libera». Il microfono oggi è quello di Trentino inBlu, con cui ha collaborato negli ultimi anni al commento sportivo del lunedì mattina. Il contesto: “Radiografia”. Giacomo Santini ripropone in avvio la cronaca di quegli ultimi metri di volata tra l'amico iridato Checco e il crucco Didi: «Capii che non c'era storia e dovevo comunque far salire l'attenzione del pubblico. E allora inventai un duello all'ultimo pedale, in realtà inesistente».

L'anno dopo andò meno bene.

Al Nurburgring vinse Knetemann, olandese abilissimo: seppe sfruttare il vento più di Moser che pure era favorito.

Qual è stata la ricetta vincente di Moser riletta dal cronista Giacomo Santini?

La grinta, il cervello. Se il fratello Aldo avesse avuto il cervello di Francesco sarebbe diventato Merckx, e viceversa se Francesco avesse avuto le gambe di Aldo, a sua volta sarebbe diventato Merckx.

Si è romanzato sul suo rapporto con il principe Adriano De Zan, volto del ciclismo in TV. Fu lotta?

Sinceramente mai litigato. Io ero in radio e dopo tredici giri d’Italia, con Ferretti e Provenzali, squadra ben affiatata, il direttore mi dice: “C’è bisogno di te in TV perché Adriano è solo. Sappi che lui non vuole nessuno. Noi però ti vogliamo in motocicletta per gli ultimi chilometri”. Mi ha aggiunto “Giacomo, noi non ti difenderemo, ti devi arrangiare tu nei rapporti con De Zan”.

Quindi ha accettato il ruolo di “gregario”?

Avevamo la stessa qualifica professionale, ma io accettai da subito il ruolo di “numero due”. La sera andavamo a cena insieme. Ci ridevamo sopra.

Tra le tante “tappe” che segnano la sua vita, vicende private a parte, che cosa mette in vetta?

Il giornalismo, chiaramente. E’ stata l’attività professionale e anche la passione della mia vita; è stato anche il soccorso in tutte le altre attività. Ancora quando ero alle superiori, al Tambosi, ero già direttore del giornaletto della scuola. Mi avvicinai a “L'Adige” incominciando a collaborare con lo sport e nel 1965 ero praticante. Nel '70 venni assunto in RAI.

Da segnalare anche la collaborazione con Avvenire…

Inizio anni Sessanta. Avevano bisogno di un corrispondente. Il pezzo più importante fu sulla frana di Zambana. Mi diedero un'intera pagina.

Del giornalismo sportivo radiotelevisivo di oggi che pensa?

Tutti urlano. Troppo. Ma non mi piace soprattutto l’eccessiva facilità di accesso alla professione giornalistica. Se qualcuno ha l’amico giusto il giorno dopo gli mettono il microfono in mano. Come la definì il collega Luca Liguori: “La rivoluzione dei mediocri”.

Non solo cronista di ciclismo. Quante olimpiadi ha commentato?

Otto dal ’76 al ’94, 5 estive e 3 invernali (e le elenca tutte, n.d.r.). Fino all’87 per la radio, e dall’87 al 94 per la televisione.

Come giudica il caso Schwazer che potrebbe non partecipare alle olimpiadi di Rio dopo la nuova positività?

Non ero d’accordo sul suo ritorno. Non si tratta di giustizia sportiva o umana. Si sapeva che lo avrebbero proiettato in un inferno e non lo volevano. Quando si sta al centro di una morale scioccante, come questa di Schwazer, bisogna avere il coraggio di uscire di scena definitivamente, senza più proporsi, meglio stare fuori.

Veniamo al Santini politico, europarlamentare dal 1994 al 2004 e senatore dal 2006 al 2013. Parliamo di Brexit?

Sono rimasto scioccato questa mattina (venerdì 24 giugno, n.d.r.) appena ho sentito la notizia, però la sorpresa mi è passata subito perché me lo aspettavo. Ho conosciuto molto bene gli inglesi durante due legislature al Parlamento Europeo e non mi hanno mai convinto. Sono sempre rimasti con un piede dentro e un piede fuori dall’Unione Europea. Sono stati grandi opportunisti, hanno sempre rifiutato le parti scomode, come ad esempio l’immigrazione e tutto quello che è politica estera. Sono usciti, peggio per loro. Brutto segnale, sul piano etico e morale, ma anche della storia politica dell’Unione Europea.

Lei ha presieduto la commissione “immigrazione” del Consiglio d’Europa quando il fenomeno non era ancora esploso. Avvisaglie?

C’era già Lampedusa invasa. Vi guidai un primo gruppo di parlamentari. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che si sarebbe evoluta in questo modo. Andammo anche a vedere come vivevano i primi profughi siriani nelle tendopoli in Turchia. Negli incontri con queste persone ci dicevano: “Noi stiamo qui tre, quattro mesi e dopo tutto si risolve, Assad viene invitato a lasciare il potere e torniamo a casa”. Sono passati cinque anni e si è sfasciato un popolo.

Non se ne esce alzando barriere, concorda?

Assolutamente. E’ il modo peggiore per affrontare il problema, perché non si fa che scaricarlo su qualcun altro.

Tornando alle due ruote, da creatore e presidente del Giro del Trentino: è vero che aprirete i confini?

Dopo quarant'anni serve un ripensamento. Siamo arrivati otto volte a Lienz e i nord tirolesi ci hanno detto un po’ gelosi: “perché non venite anche da noi, a Innsbruck?”. E allora faremo il Giro dell’Euregio.

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