Una risposta positiva e soprattutto replicabile a una delle più pressanti questioni umanitarie oggi in agenda
Il 29 febbraio 2016, 93 profughi siriani, 24 famiglie in tutto, sono partiti da Beirut e sono atterrati a Roma grazie al primo corridoio umanitario aperto dall’Italia per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, delle Chiese evangeliche e della Tavola valdese, d’intesa con il governo italiano. Quell’esperienza pilota, che ha consentito di portare in Italia profughi siriani e iracheni in tutta sicurezza e con i documenti necessari, è stata presentata alla prima edizione del World Humanitarian Summit (Whs) di Istanbul, promosso dalle Nazioni Unite il 23-24 maggio, come una positiva e soprattutto replicabile risposta a una delle più pressanti questioni umanitarie oggi in agenda.
Sette di quelle famiglie siriane, scappate dalla città di Homs distrutta dalla guerra e vissute per quattro anni in un campo profughi nel nord del Libano, sono state accolte in Trentino, in una casa della Diocesi di Trento a Villa San Nicolò, e godono della protezione internazionale come gli altri richiedenti asilo assegnati dallo Stato alla Provincia di Trento.
Il loro viaggio, che Vita Trentina ha raccontato sul numero 10/2016, è ora ripercorso in una mostra a Palazzo Thun a Trento, che sarà aperta dal 27 maggio al 15 giugno. La comunità trentina si è fatta carico di queste persone anche in seguito all’approvazione in Consiglio provinciale, nel dicembre 2015, di un ordine del giorno che ha impegnato la Giunta provinciale a sostenere il progetto di apertura del canale umanitario con il Libano. A presentarlo, il consigliere Mattia Civico, che abbiamo intervistato.
In cosa consistono i corridoi umanitari?
“Il corridoio umanitario offre la possibilità alle persone che fuggono dalla guerra di farlo in sicurezza e liberi dalle mani dei trafficanti. Consente loro di mettere in salvo la vita, ricevendo un’accoglienza consapevole, perché fatta anche di conoscenza pregressa e di attesa”.
Come è avvenuto nel caso dei profughi giunti a Trento dal Libano.
“In effetti dietro al corridoio umanitario aperto il 29 febbraio di quest’anno ci sono tre anni di condivisione dei volontari dell’Operazione Colomba, il corpo civile di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII, al campo di Tel Abbas”.
Chi sono questi volontari?
“Persone semplici, giovani che hanno scelto di stare insieme ai profughi accampati in Libano, nelle medesime tende di nylon, sul confine siriano, nella regione dell’Akkar. Questa disponibilità a mischiare destini, a compromettersi, a dire concretamente che ogni vita ha il medesimo valore, è stata la base del nostro corridoio”.
L’iniziativa ha trovato ascolto anche alla prima edizione del World Humanitarian Summit (Whs) di Istanbul.
“Sì, perché questo corridoio racconta che se conosci le persone, non solo le paure si sciolgono come neve al sole, ma prende il loro posto un legame di amicizia e affetto che scrive storie nuovo. Così è stato con le famiglie di Homs conosciute a Tel Abbas. Che non sono diverse dai sessanta milioni di profughi che ci sono nel mondo. Le abbiamo conosciute e ci è sembrato intollerabile che rischiassero la vita, finendo nelle mani dei trafficanti”.
Intollerabile?
“Intollerabile per loro, ma insopportabile anche per noi. Ci siamo chiesti non solo che sarebbe stato di loro, ma che sarebbe stato di noi, della nostra umanità, se avessimo assistito alla loro fuga senza fare niente”.
E' un interrogativo che va ben oltre l'esperienza di questo corridoio umanitario.
“Come oggi noi chiediamo conto ai nostri nonni di come sia stato possibile che un'intera generazione abbia assistito agli orrori del nazifascismo, allo sterminio programmato di masse enormi di persone, così un domani i nostri figli ci chiederanno che cosa abbiamo fatto di fronte alle tragedie del Mediterraneo, alla disperazione di milioni di persone che chiedono un futuro diverso e che bussano alla nostra porta. Non potremo dire che non sapevamo, che non abbiamo visto, che non potevamo fare nulla”.
L’apertura del corridoio umanitario è il frutto dell’impegno di molte persone e realtà.
“A livello nazionale è stata fondamentale l’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese Evangeliche e del Tavolo Valdese. Importante il consenso del governo italiano, che ha concesso mille visti umanitari”.
A livello locale quali forze si sono mobilitate?
“La Diocesi di Trento con generosa disponibilità ha messo a disposizione la struttura di San Nicolò, con operatori e volontari della Fondazione Comunità Solidale, la Provincia Autonoma sta sostenendo l’accoglienza e si sono messe in moto tante energie positive”.
Perché ripercorrere questa storia in una mostra?
“Perché è una storia di amicizia fra persone lontane, con destini apparentemente separati. E’ una storia che racconta la disponibilità non solo ad accogliere, ma ad andare incontro. È una storia di umanità che si salva: la loro e la nostra. Insieme”.
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