Un settore dell’economia mondiale che non risente della crisi. E che brilla per la scarsa trasparenza
C’è un settore dell’economia mondiale che non è in crisi e, anzi, registra robusti segnali di crescita: quello della produzione e del commercio delle armi. La conferma della ripresa della spesa militare viene dal Sipri, il centro studi indipendente di Stoccolma considerato la più importante autorità in materia. Si tratta di una torta di 1.676 miliardi di dollari, il 2,3% dell’intero prodotto interno lordo mondiale. Guardando alle spese militari dei singoli Stati, al primo posto ci sono gli Usa, seguiti nell’ordine da Cina, Arabia Saudita e Russia, tutti e tre in sensibile aumento. L’Italia si colloca al dodicesimo posto e la sua spesa militare sarebbe in diminuzione, secondo il Sipri. Ma ha qualcosa da eccepire la Rete italiana per il disarmo, coordinamento nazionale a cui partecipano molte organizzazioni, anche cattoliche, secondo cui l’istituto svedese non computerebbe alcune voci che nel bilancio statale italiano sono allocate diversamente. In base ai calcoli della Rete italiana per il disarmo, la spesa militare italiana sarebbe invece in crescita. Di sicuro è cresciuto – nel 2015 – anno di riferimento dell’ultima relazione del governo al Parlamento – l’export di armi dall’Italia: nel 2015 il valore delle licenze all’esportazione è più che triplicato, raggiungendo la cifra record dal dopoguerra di oltre 8,2 miliardi di euro.
Italia, scarsa trasparenza
“E’ triplicato l’export, ma è crollata la trasparenza”, commenta Giorgio Beretta, analista di Opal – Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia. “Lo avevo già scritto lo scorso anno e purtroppo devo confermarlo – scrive Beretta in un lungo articolo su Unimondo. – La Relazione che da due anni viene inviata alle Camere è ormai praticamente inutile per conoscere in dettaglio le operazioni autorizzate e svolte per esportazioni di armamenti. Tranne i valori monetari complessivi e i generici materiali militari suddivisi per paese, la Relazione non dice nemmeno quest’anno quali siano i paesi destinatari dei materiali militari delle 2.775 autorizzazioni rilasciate; ben 366 pagine di operazioni autorizzate di cui non si sa ciò che invece andrebbe saputo: il paese destinatario. Lo stesso vale per le operazioni effettuate, cioè le consegne di materiali militari (denominate “Esportazione Definitiva” e riportate nella “Tabella M” dell’Agenzia delle Dogane): 215 pagine di singole operazioni senza alcun riscontro del paese destinatario”.
Se fino a qualche anno fa, grazie all'incrocio dei dati contenuti nelle numerose tabelle fornite dai vari ministeri, era in qualche modo possibile ricostruire alcune delle operazioni autorizzate e svolte, “oggi è praticamente impossibile”, rimarca Beretta. “Tutto questo non solo rende gran parte della Relazione un mero esercizio burocratico e di facciata, ma soprattutto mina alla radice il controllo parlamentare e della società civile. Quella società civile che è stata la promotrice della legge n. 185 del 1990 dopo gli scandali delle esportazioni di sistemi militari degli anni ottanta, coperte in gran parte dal segreto di Stato che, in vigore dai tempi del fascismo, ha regolato per 60 anni questa materia”.
Tornano le “banche armate”
A trarre vantaggio dalla mancata trasparenza sono soprattutto le banche estere, oltre che le aziende del gruppo Finmeccanica. E, tra le banche, sottolinea Beretta, “quelle, come Deutsche Bank e BNP Paribas, che non hanno mai emanato delle direttive per il controllo delle operazioni finanziarie sugli armamenti convenzionali e sulle armi leggere”. Se migliaia di operazioni “restano in una vaga nebulosa”, qualcosa però gli analisti sono in grado di far affiorare. “E sono informazioni preoccupanti – scrive Beretta -. Come le 5.000 bombe partite dalla Sardegna inviate in Arabia Saudita e utilizzate dalla Royal Saudi Air Force per bombardare lo Yemen. O gli oltre 3.600 fucili della Benelli inviati lo scorso anno alle forze di sicurezza del regime di Al Sisi e di cui l’Osservatorio Opal di Brescia ha dato notizia”.
In ogni caso, quanto a mancanza di trasparenza l'Italia è in buona compagnia. Anche l'Europa non è trasparente sulle armi che vende nel mondo. La Relazione annuale dell’UE sul controllo delle esportazioni di armi e sistemi militari giunge in ritardo (si riferisce al 2014) ed è incompleta e incoerente, mentre il Consiglio dell’Unione europea “non sta prendendo sul serio il controllo democratico sull’esportazione di armamenti”: a dirlo sono la Rete Italiana per il Disarmo e l'Enaat (European Network Against Arms Trade, rete di diverse organizzazioni nazionali per il controllo del commercio di armamenti in Europa).
Chi alimenta i conflitti
In un comunicato congiunto Rete Disarmo ed Enaat denunciano come la principale zona geopolitica di destinazione dei sistemi militari sia stata il Medio Oriente (oltre 31,5 miliardi di euro di licenze): “ciò significa che i paesi dell’UE stanno vendendo rilevanti quantità di armi nella zona del mondo col maggior numero di conflitti e regimi autoritari”, autorizzando “esportazioni di armamenti e di armi leggere a governi che abusano dei diritti umani ed a paesi coinvolti attivamente in guerre, come l’Arabia Saudita (3,9 miliardi di euro), il Qatar (11,5 miliardi), l’Egitto (6,2 miliardi) e Israele (998 milioni)”. E aggiungono: “L’Arabia Saudita è la principale destinazione di armamenti dell’Ue degli ultimi quindici anni e tra i maggiori clienti di armi europee nel 2014 figurano anche Qatar, Algeria, Marocco, Egitto, India, Emirati Arabi Uniti e Turchia. Considerando i livelli di povertà di alcuni di questi paesi, il loro coinvolgimento in conflitti e i legami sospetti con gruppi terroristici è sorprendente che i governi europei li considerano destinatari accettabili per una politica di esportazioni di armamenti chiara e responsabile. Invece di contribuire alla sicurezza comune, le esportazioni di sistemi militari dell’Ue stanno alimentando conflitti, come quello in Yemen, regimi repressivi come l’Arabia Saudita, Israele e Egitto: tutto questo finisce con l’incrementare i flussi di migranti e rifugiati e le pressioni alle frontiere europee ma, contemporaneamente, permette di aumentare i contributi finanziari dell’Ue per azioni infinite di peace-building e di ricostruzione”. La conclusione è che, a dispetto del conclamato impegno a “evitare esportazioni di armi che potrebbero essere utilizzati per la repressione interna, l’aggressione internazionale o che potrebbero contribuire all’instabilità regionale”, come scritto nella “Posizione Comune 2008/944/PESC” dell’8 dicembre 2008 che definisce “Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”, gli Stati dell'Ue “stanno giocando ai ‘pompieri piromani’”. Un gioco molto pericoloso.
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