E’ un festival che dopo gli “anni d’oro” dell’alpinismo da qualche tempo sta cercando di riposizionarsi cercando nuovi spazi e una sua identità, allargando il campo e saggiando nuovi territori. Tante delle proposte di quest’anno sono frutto, e non è la prima volta, di un setaccio piuttosto meticoloso di lavori che sono passati in altre kermesse, spesso ottenendo riconoscimenti significativi. Comunque un’occasione per assistere ad opere ben difficilmente visibili in sala, tuttalpiù su qualche canale tv a pagamento. E non è detto che i doc migliori siano sempre in concorso. Tra questi, La memoria dell’acqua di Patricio Guzman che fa parte del “pacchetto” di documentari che arriva dal Cile, il Paese andino al quale il festival trentino quest’anno ha dedicato un’ampia “finestra”. Il regista latinoamericano è tra le figure più importanti del cinema cileno e già in precedenza ha girato documentari riconosciuti a livello internazionale. La memoria dell’acqua sarà in programmazione il 25 maggio al cinema “Astra” di Trento. Prendendo a spunto la conformazione geografica cilena, contrassegnata da 2760 miglia di coste, da montagne, vulcani e ghiacciai, Guzman tratteggia un apologo di straordinaria intensità e lirismo sulla storia di questo Paese, fino alla dittatura che ne ha contrassegnato un lungo e doloroso periodo. Di acqua è fatto il mondo, almeno la sua gran parte, come il nostro corpo, essenza di vita, goccia su goccia. Acque che “trattengono” segreti, segni distintivi, apparentemente insignificanti, come due bottoni misteriosi, ma forse non troppo, anelli di congiunzione che dai popoli indigeni della Patagonia, e dalla loro fine, conducono fino a Pinochet. Le voci delle vittime degli uni come di una dittatura sanguinaria oltrepassano il tempo e ne scandiscono lo scorrere, a imperitura memoria.
Viene dalla Turchia Bakur del giornalista Ertugrul Mavioglu e del documentarista Cayan Demirel. Entrambi hanno passato otto anni a testa nelle patrie galere per motivi politici. In Turchia il loro film è vietato. Con una scusa o con un’altra il regime del sultano Erdogan (a cui l’Unione europea ha “regalato” 6 miliardi di euro per tenersi i profughi che non si sa che fine faranno) ha impedito che fosse visto nei maggiori festival del Paese. Perché parla della vita guerrigliera dei soldati curdi del Pkk, il movimento di Apo Ocalan da anni in carcere, contro il quale la Turchia combatte da sempre non riconoscendone l’identità. Il documentario è stato girato prima che le truppe del Pkk fossero coinvolte in Siria trovandosi non solo a combattere, a Kobane, per liberare la città dall’Isis ma a sfuggire anche ai bombardamenti turchi. “Bakur” racconta, in un momento di sostanziale tregua con lo Stato turco che sembrava potesse portare ad una risoluzione della questione curda, la vita quotidiana, in montagna, di un popolo senza patria tra campi di addestramento, lunghe marce, la ricerca di ricoveri per l’inverno e momenti di festa.
Lascia una recensione